la Repubblica, 1 settembre 2024
Addio al mito del cowboy
Quand’ero un ragazzino di 8 anni, mia madre mi parcheggiava durante il fine settimana a casa dei nonni in un paese di poche migliaia di abitanti all’ombra delle Dolomiti venete. Recoaro Terme si nasconde come uno smeraldo nel cuore di una valle lussureggiante che s’alza verso panorami di prati verdeggianti e picchi di calcare nitido. All’epoca, salivo di rado verso quei pinnacoli ricoperti di nuvole, popolati da camosci e formaggiai. Mentre i nonni facevano il riposino, trascorrevo i pomeriggi in una saletta affacciata su una ripida e fitta foresta dove il nonno andava a caccia. Quella stanza custodiva un tesoro che mi avrebbe cambiato la vita. Questi paesaggi montuosi sono famosi non solo per le acque curative, gli alpinisti pionieristici e gli sciatori olimpionici, ma anche perché il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche trovò tra gli abitanti e i monti di Recoaro l’ispirazione per scrivere Così parlò Zarathustra. A quell’età non avevo ovviamente idea di chi fosse Nietzsche. Né il suo amico Zarathustra. Ciò che mi interessava non era là fuori, ma dentro casa. In quella sala di lettura, arredata con sofà e poltrone design anni ’60, c’era un prezioso armadio con piccole ante cigolanti. Conteneva lunghe mensole con una collezione di fumetti del mio cowboy preferito: Tex Willer. Quella era la raccolta preziosa e rara dello zio Eddo, che narrava le storie del Vecchio West attraverso disegni colorati arricchiti dalle trame di Sergio Bonelli. Nella mia mente impressionabile di bambino queste storie contribuirono a formare i valori e gli obiettivi di una vita, nutrirono quell’idea nebulosa chiamata ispirazione, incidendo nell’immaginazione il mito del West, dell’autosufficienza, dell’amicizia fidata, del conflitto e della sua possibile risoluzione attraverso l’ingegno, oltre a come una forma di violenza ben amministrata e “giusta”, seguita da un percorso diplomatico verso la pace, sia ciò che chiamiamo la normalità. Tutte quelle storie del ranger texano che glorificavano l’America contribuirono a farmi desiderare di trasferirmi negli Stati Uniti, pochi anni dopo, da solo, all’età di 16 anni, mentre cercavo la mia “terra della libertà”, il mio West.
È con questa premessa che affronto il tema di come il West, i western, i cowboy, le relazioni interetniche, il colonialismo e l’appropriazione di terre da parte di immigrati invasori arrivati da paesi anglosassoni, hanno influenzato la mia crescita, così come quella di molti di noi, generazione nata tra gli anni ’60 e gli ’80. Oltre ai fumetti di Tex Willer, dalla fine della Seconda guerra mondiale, cioè l’inizio dell’Era Americana, la maggior parte dei cinema e molte reti tv di tutto il mondo sono stati intasati da un genere molto popolare: il film western. Noi italiani abbiamo introdotto una versione critica, gli spaghetti western che diedero la fama a Clint Eastwood. Successivamente, Quentin Tarantino aggiunse il suo tocco, combinando le arti marziali asiatiche alla crudeltà di quel mondo. Più di recente Martin Scorsese ha esplorato una visione meno centrata sull’uomo bianco, ma pur sempre dal punto di vista di un regista italoamericano e non nativo americano, in Killers of the Flower Moon.
In che modo tutte queste ore, giorni e mesi di narrazione hanno instaurato il prototipo del cowboy come eroe nelle nostre menti, insinuando nella mentalità occidentale una certa superiorità del “salvatore bianco tra i selvaggi dalla pelle scura”? E in che modo il film western e il mito del West hanno impattato le persone per decenni, creando una visione distorta della realtà globale? Sono caduto in molti tranelli del Vecchio West quand’ero piccolo, credendo in tanti miti abilmente fabbricati da Hollywood e dalla macchina culturale europea. La colonna sonora è sempre la musica country o bluegrass. I set sono i tramonti che fermano il tempo, il sole che svanisce dietro torri di calcare arancione che si ergono silenziosamente sopra il deserto mentre un’armonica suona. Ho imparato a suonare a orecchio quella melodia con l’armonica a bocca a causa di tutti quei film western che mi sono sciroppato. I primi erano in bianco e nero. Poi, quando arrivò la tv a colori, l’impatto emotivo della bellezza di quel mondo immaginario e spesso crudele fu per sempre presente nella mia anima.Naturalmente, senza alcuna considerazione per il concetto storico e genocida su cui si basava, apprendevo anche una cultura di guerra che ha penetrato la mentalità americana e occidentale, avvolta nelle illusioni della mitologia eroica creata intorno alla sua stessa narrazione. I western ci hanno fatto sognare di cavalcare su quelle vaste praterie, nell’apertura di quei cieli in grandangolo, nell’eccitazione che le avventure di quel mondo lontano promettevano all’immaginazione di ognuno di noi.Non erano solo gli americani e non sono stati solo i film. Il mito del West e del cowboy, oltre a Tex Willer e agli spaghetti western spesso girati in Spagna, è stato alimentato anche dal fumettista belga Morris e dall’autore francese René Goscinny con Lucky Luke, tiratore scaltro che sapeva arrotolarsi le sigarette con una mano. Anche quel cinico pistolero d’Oltralpe contribuì a far sì che noi bambini europei urbanizzati imparassimo a idolatrare l’archetipo del cowboy americano solitario.Italia, Francia, Svizzera, Belgio, Spagna... questa americanizzazione dell’Europa del dopoguerra si è estesa negli anni ’70 e ’80 con la potente macchina del marketing statunitense, iniziata negli anni ’20 e perfezionata negli anni ’50, periodo d’oro rievocato bene dalla serie Mad Men.Sono così appassionato dalle storie di cowboy da aver completato anche il videogioco Red Dead Redemption. Ho divorato sei stagioni di Longmire con Lou Diamond Phillips. Ho ammirato Josh Brolin assorto nel misterioso Outer Range, ho seguito il destino tortuoso di Kevin Costner inYellowstone. Sono un fan di tutta questa narrativa. Perché? Anche a causa di certe lezioni di mascolinità tossica e di intensa autosufficienza, un equilibrio e una sicurezza in sé che molti uomini e ragazzi della mia generazione hanno sempre trovato magnetici ed esemplari, per quanto ridicola possa apparire questa nostra passione macho, a un esame contemporaneo. È un’altra versione dell’ossessione per l’Impero romano per adolescenti e maschi di mezza età di cui si è riso molto ultimamente.Tutta questa westernizzazione delle nostre menti si basa su un mito che si è dimostrato falso e che fu costruito abilmente da piccoli gruppi di potenti in varie occasioni al fine di perpetrare un genocidio al servizio degli interessi commerciali e affermare la superiorità razziale sugli abitanti locali, mentre venivano eliminati. Famosi generali e illustri presidenti americani, sorprendentemente (o no), sono i principali indiziati.L’idea del West del Frontier ClubL’idea del West non è nata per caso. È stata formulata intenzionalmente, con proposito e impegno. Nacque con un saggio cruciale scritto nel 1893 da Frederick Jackson Turner, Il significato della frontiera nella storia americana.L’autore sosteneva che ciò che definiva come «il punto d’incontro tra la barbarie e la civiltà» è alla base dell’identità e della politica americane. La storia del ruolo dell’America nel mondo negli ultimi 130 anni potrebbe essere interpretata attraverso questa teoria, successivamente molto contestata. Turner vedeva agricoltori e coloni come eroi che arrivavano nel West alla fine dell’era selvaggia dei cacciatori, dei trappisti e degli esploratori. Fu il primo passo verso quello che per lui era “la civilizzazione”. Nella visione revisionista di Turner, il West era solo una landa da colonizzare ai margini di terre libere con abbondanza di opportunità per tutti.Nacque l’idea dell’America come terra di occasioni da conquistare con la forza. In seguito, si amalgamò con il concetto di sfruttamento capitalistico della terra, poiché il Paese si evolveva in una nazione industrializzata, e aveva bisogno di adattare la sua ideologia per guidare il secolo americano.Questo non è ciò che i membri del Frontier Club volevano far vedere al mondo. Questa tesi è stata avanzata da Christine Bold nel suo studio suI western popolari e il potere culturale tra il 1800 e il 1924. Bold sostiene che un gruppo di persone guidate dal politico e poi presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt (il fondatore), assieme allo scrittore Owen Wister e al pittore Frederic Remington, oltre ad altri membri del “Boone and Crockett Club”, un’élite di uomini bianchi amanti della caccia delle università Ivy League, distorsero intenzionalmente la realtà del West, trasformandola in un concetto romanticizzato. Il loro obiettivo era influenzare l’opinione pubblica, facendo lobby per una legislazione che proteggeva i terreni di caccia per sé stessi. Idearono, esagerando, racconti e immagini western per garantire di poter continuare a cacciare grandi animali e fare un po’ come gli pareva nel West. Come ci riuscirono? Investendo denaro e influenza per zittire “l’altra storia” – le voci dei neri (un cowboy su quattro era un ex schiavo africano-americano), lo sfruttamento e il genocidio dei nativi americani, la schiavitù e i maltrattamenti degli immigrati dell’Europa non anglosassone e degli uomini bianchi non di élite.Il loro progetto fu efficace. Tutte le storie che seguirono il periodo del Club della Frontiera avevano un cowboy bianco anglosassone protestante o una figura eroica bianca anglosassone protestante che arrivava a salvare gli altri uomini bianchi e a proteggere soprattutto le donne bianche dagli indiani nativi o dai messicani dalla pelle scura. La storia vera è spesso l’esatto contrario.Eppure i miti attorno a Wild Bill Hickock, Jesse James o Buffalo Bill sono il risultato di questo piano iniziale che ha prodotto innumerevoli film, fumetti e opere letterarie trascurando le realtà della “conquista” del West, ignorando i massacri, il razzismo, lo sfruttamento delle persone e delle risorse.I cliché del cowboy e l’imbiancamento del mito del WestI quattro archetipi creati dalla cultura del mito della frontiera americana sono: 1) il cacciatore o trappista che combatte gli “indiani selvaggi”; 2) il fuorilegge che lotta contro il sistema; 3) il cacciatore di taglie o pistolero famoso e 4) il generale (il vero cattivo del West, secondo gli attuali standard anti-genocidio).Inizialmente, il mito inventato del cowboy rappresentava o un esploratore nella natura più selvaggia o, alternativamente, uomini che vivevano in simbiosi con la natura. Era una creazione romantica che incarnava la ricerca della libertà individualistica, spesso fuggendo dalla civilizzazione della costa orientale e dell’Europa. Ma, come spiega Eric Hobsbawm, la tradizione inventata del West è completamente simbolica, poiché generalizza l’esperienza di un manipolo di persone marginali. Era «la difesa delle tradizioni americane nativamente bianche anglosassoni protestanti contro milioni di immigrati di razze inferiori». In questo mito, prevale l’ariano alto e dinoccolato, escludendo dal potere i messicani, i nativi e i neri che erano stati originariamente inclusi negli spettacoli internazionali di Buffalo Bill. E poi cancellati.Ma Buffalo Bill e il clownesco Tom Mix (o, oggi, Buster Scruggs) rappresentano l’intrattenitore cowboy, l’uomo di spettacolo in contrasto con un archetipo forte sopravvissuto più a lungo: l’uomo romantico, forte, timido, ma d’azione. Spesso violento e omicida. Come Gary Cooper. Come John Wayne. Oggi come Kevin Costner. Gli assassini silenziosi, uomini Marlboro pieni di sé.Questi messaggi simbolici si sono infiltrati nella politica, poiché lo stesso Teddy Roosevelt adottò il look del cowboy per attirare voti. La figura del cowboy ha persistito nella politica americana con i presidenti John F. Kennedy, Lyndon Johnson, Richard Nixon e, naturalmente, con il cowboy più famoso di tutti, Ronald Reagan, che in effetti ne aveva interpretato uno a Hollywood come attore. E non si esprimono, si atteggiano e agiscono forse come dei vecchi cowboy i candidati maschi alle presidenziali americane?Giocare a cowboy e indianiDurante gli anni della scuola elementare, andavo a trovare spesso il mio amico Sergio e suo fratello Marco nella loro tenuta di campagna sulle colline di Valdagno, sopra la località Piana. Il loro papà, Ugo, aveva costruito loro una fedele replica di un forte della cavalleria statunitense, più piccola ma con torri d’osservazione agli angoli, un ampio cancello e scale di legno che salivano alle palizzate, da cui noi piccoli cowboy veneti avremmo respinto gli attacchi degli indiani, interpretati dai nostri genitori. Mia sorella maggiore si lasciò trascinare così tanto dalla suggestione di questo gioco violento che mandò un adulto in ospedale, colpendolo in testa con un grosso bastone proprio quando stava quasi varcando la palizzata.Eravamo solo piccoli cowboy americanizzati. Questo fenomeno ha investito l’Europa con tutta la sua forza, ma ha anche influenzato il resto del mondo. Come mai tutti ci siamo identificati con questi tipi alti e snodati, la maggior parte dei quali non avrebbe considerato un italiano una persona bianca fino al 1920? Avevamo letto troppi Tex Willer e visto troppi film.Il primo western fu distribuito nel 1909. Ma perché rappresentava un uomo bianco come l’eroe, considerando quanto diverso fosserealmente il West? Ciò può essere attribuito alla lunga eco del lavoro di propaganda del Frontier Club. E anche perché l’ultima fase dell’invasione europea dell’America, la conquista del West, avvenne negli stati settentrionali del Montana, Idaho e Wyoming, dove un successivo afflusso di migranti bianchi inglesi, tedeschi e scandinavi invase le praterie contribuendo a fissare lo standard attorno a un uomo bianco robusto, resistente, che sentiva che la sua cultura era superiore alla selvaggia incomprensibilità che lo circondava.La vera storia di come è stato conquistato il WestNo, non sono stati i solitari cowboy con i loro lazi, ipistoleros artistici, i testardi cercatori della Corsa all’Oro, itrapper romantici o gli agricoltori resilienti con le loro carovane di carri a conquistare il West. Non sono state nemmeno le milizie. Fu l’impresa privata che finanziò un massacro pianificato nell’interesse dello sviluppo industriale a favore esclusivo dei bianchi.Il Vecchio West prima della Guerra Civile non era così violento com’è stato dipinto. Era più pacifico e meno letale degli attuali Stati Uniti. La frontiera era un luogo più civilizzato, più tranquillo e più sicuro della società americana di oggi. I diritti di proprietà erano garantiti, l’ordine civile prevaleva. Non era un luogo di grande caos, come il mito della letteratura e del cinema generato dal Frontier Club vorrebbe farci credere. Agenzie di protezione private come club fondiari, associazioni di allevatori, campi minerari e carovane mantenevano l’ordine. Le grandi rapine in banca furono meno di 10 in tutto e le morti violente sia tra gli invasori stranieri che tra le popolazioni locali furono poche centinaia, negli anni che precedettero la Guerra Civile. Poi le cose cambiarono. Fu la fine del commercio e l’inizio dei massacri programmati.Fino al 1861, il negoziato era il mezzo predominante per acquisire terre. Non le sparatorie. La guerra era dannosa per gli affari. Ma la Guerra Civile americana creò un esercito permanente, alimentando una mentalità da soldato professionista il cui benessere personale aumentava con la guerra. Thomas DiLorenzolo documenta in La cultura della violenza nel West americano: mito versus realtà dove illustra come «la vera cultura della violenza nel West americano della seconda metà del XIX secolo scaturì dalle politiche del governo degli Stati Uniti nei confronti delle tribù dei nativi delle Grandi Pianure».Lo stesso governo, mentre ancora stava sconfiggendo l’esercito confederato nel Sud, decise di sovvenzionare la costruzione di una ferrovia transcontinentale, sostenuta da industriali fedeli al Partito Repubblicano di Abraham Lincoln. Era, in altre parole, uno sforzo concertato che coinvolgeva l’esercito e l’industria. Il leader più importante dietro questo piano era il generale William Tecumseh Sherman. Lui e il generale Grenville Dodge dovevano «eliminare gli indiani dalla strada designata per la prima ferrovia federale pesantemente sovvenzionata, l’Union Pacific».È così che finiscono il libertarianismo, l’autosufficienza, l’individualismo spietato… Furono le vite dei soldati dell’Unione e i soldi dei contribuenti a rendere possibile la costruzione delle infrastrutture americane grazie ad armi finanziate dallo Stato, politiche pubbliche e denaro delle tasse che, alla fine, arricchirono le aziende che avevano ottenuto gli appalti per i badili e i picconi per scavare, il ferro per le rotaie, il filo per i telegrafi. «La cultura della violenza nel West americano della fine del XIX secolo fu creata quasi interamente dagli interventi militari del governo degli Stati Uniti, che erano principalmente un sostegno velato alla corporation ferroviaria transcontinentale sovvenzionata dal governo» scrive DiLorenzo. Gli indiani reagirono, restituendo la crudeltà colpo su colpo. Ma non furono loro a iniziare l’implacabile invasione durata 25 anni che si concluse con l’olocausto di milioni di nativi.Era necessario farlo in questo modo? La disumanizzazione e una totale strage della popolazione locale basata su razza e teorie di superiorità etnica furono davvero indispensabili a stabilire un’infrastruttura commerciale che avrebbe portato merci nel West? Basta guardare al Canada per capire che non fu per niente necessario. È vero, l’eliminazione della popolazione indigena in Canada ci fu, in modo più silenzioso e nascosto. Eppure i canadesi costruirono una ferrovia transcontinentale poche miglia a nord dal confine degli Stati Uniti senza la devastante campagna di genocidio applicata nei confronti dei nativi americani, dimostrando che la costruzione della ferrovia non doveva necessariamente essere così omicida come in America.Come libertà e uguaglianza entrarono in Occidente con la critica indigenaNel 1703, un libro intitolato Curiosi dialoghi con un selvaggio di buon senso che ha viaggiato, scritto da Louis-Armand de Lom d’Arce, o Barone di Lahontan, divenne un successo editoriale in Europa. Era basato sull’incontro del barone con un brillante ed eloquente statista del popolo Wendat chiamato Kandiaronk. Fu letto da un’alta percentuale di intellettuali dell’epoca affascinati dalla critica indigena sulla mancanza di libertà e uguaglianza nelle monarchie che governavano l’Europa fino al XVII secolo. Il saggio L’alba di tutto: una nuova storia dell’umanità degli antropologi David Graeber e David Wengrow approfondisce oggi come le stesse idee di “Libertà, Uguaglianza e Fratellanza” della Rivoluzione francese, di “Libertà e Uguaglianza” della Rivoluzione americana, i concetti di libertà individuale e uguaglianza che fiorirono con l’Illuminismo, oltre all’intera genesi della sinistra occidentale attraverso gli scritti di Jean-Jacques Rousseau, insieme alle elucubrazioni di Frederic Engels sulla primitiva comunione delle popolazioni del Nuovo Mondo, ebbero tutti origine grazie alla critica che gli indiani d’America fecero nei confronti della società europea monarchica dell’epoca.I “selvaggi” insegnarono una lezione ai “superiori salvatori bianchi” che li avrebbe trasformati per sempre. Fu il concetto di libertà basato sull’uguaglianza adottato dalla società dei nativi d’America che ispirò, indirettamente, le democrazie occidentali contemporanee.Il cowboy che non è più in meCosì, dietro quelle canzoni country che si è destinati ad ascoltare mentre si potano i rami in giardino, dietro quei jeans sbiaditi, le tasche della camicia con il bottoncino di madreperla e gli stivali di pelle indossati a volte con un certa baldanza, dietro una certa andatura e sicurezza in sé stessi che proviene dall’aver visto troppe volte film sui cowboy, non resta nulla tranne il mito che copre un massacro di massa, la favola di un anarchismo individualista che sfortunatamente è di nuovo di moda oggi, sia nell’Argentina del presidente iperlibertario Javier Milei che nell’America della ritrovata autosufficienza e del redento isolazionismo di Donald Trump, fino alle canzoni di Beyoncé che si è data al country, sapendo che il mercato è accresciuto dai fan trumpiani.La verità del West è molto diversa. Dietro le storie di caccia del Frontier Club si cela una carneficina e una fantastica macchina propagandistica che per decenni ha arruolato i migliori talenti nella scrittura, nella regia e nell’interpretazione per creare un archetipo degli uomini del West che si è insinuato nelle menti di molti.È una bugia dentro una bugia che ho masticato quotidianamente, leggendo Tex Willer, eroe dei fumetti che, come ho scoperto in seguito, era originariamente destinato a chiamarsi, più francamente, “Tex Killer”. Fu solo grazie all’intervento della madre dell’autore, Sergio Bonelli, che il nome fu addolcito. Ora, quando guardo un vecchio film western o ricasco in una nuova serie tv con gente che indossa cappelli da cowboy, non posso più ignorare ciò che so. Non posso fare a meno di vedere la buffonata dietro la maschera, «la recita», come Henry Kissinger definiva la sua «diplomazia da cowboy»: cavalcare nelle capitali del mondo senza nessuno attorno, come un mandriano solitario. Il sipario è cascato. E ho deciso che è ora di salutare per sempre il cowboy che è in me. Adiós, pardn’r!