Domenicale, 1 settembre 2024
Riccardo Muti spiega la sua imminente conduzione a Tokyo
Non le ho contate, tutte le volte che ho diretto in Giappone. Saranno centinaia, forse di più. Ricordo la prima volta con la Scala, quando eravamo in due direttori, Carlos Kleiber con la sua Bohème ed io.
Ma andando indietro, indimenticabile fu quel debutto, era il 1975: incredibile sia già passato mezzo secolo. Mi avevano invitato i Wiener Philharmoniker, che avevano in programma una lunga tournée dove Karl Böhm avrebbe diretto le date della prima parte e io quelle della seconda. Il gran Maestro di Mozart e Strauss aveva 81 anni, io 34. Ero arrivato a Tokyo a ridosso del suo ultimo concerto, lo ascoltai e rimasi folgorato: mai mi sarei aspettato quel tipo di ascolto del pubblico in sala. Assolutamente unico. Assorto, rispettoso, partecipe. Mai mi era capitato fino ad allora di ascoltare quel silenzio, che solamente lì avrei poi sempre ritrovato. Perché nella musica esistono due tipi di silenzio: uno morto, e uno, all’opposto, eloquente. Vivo, pieno di significato.
Oggi di nuovo ritorno a Tokyo e vi rimarrò per le due settimane di corso della Italian Opera Academy, un progetto che porta nella intestazione il mio nome. Nato in Italia, dieci anni fa, ha subito trovato una sponda feconda in Oriente: nel 2019 vi abbiamo portato Rigoletto, nel 2021 Macbeth, nel 2023 Un ballo in maschera.
Alla terna verdiana ora si aggiunge Attila. Titolo particolare, meno scontato, sicuramente anche meno conosciuto, perché fa parte della produzione dei cosiddetti “anni di galera”, a lungo screditati e tacciati di una scrittura superficiale e frettolosa. Niente di più sbagliato. Non sono assolutamente d’accordo. Il primissimo Verdi contiene già tutte le formule originali di costruzione e la esattezza cristallina dei grandi capolavori. Partitura alla mano, al pianoforte e sul podio lo dimostrerò ai giovani direttori (selezionati su un numero vistoso di richieste) che frequenteranno queste lezioni. Dove avremo la fortuna di un protagonista vocale d’eccezione, il basso Ildar Abdrazakov, con il quale a New York, per il Metropolitan, avevamo già costruito insieme questo personaggio tanto emotivamente complesso: il capo degli Unni, perdente su tutti i fronti.
Perché Attila non è il barbaro dei vecchi libri di scuola, quello riassunto nel motto: dove passa non cresce più l’erba. Nessuna opera teatrale avrebbe potuto reggere tanta semplificazione, e Verdi era un fine drammaturgo, esigente, molto attento nelle scelte dei suoi soggetti. Attila è un uomo di guerra e di potere, muscoloso e gigantesco; figura michelangiolesca, segnato dall’amore, tradito da tutti quelli in cui aveva riposto fiducia. Il teatro in musica vede sfilare una serie infinita di tradimenti, ma qui se ne accumulano diversi. Lui ne viene accerchiato. Muore nella solitudine dell’eroe. Ha creduto in una donna che lo ingannava. Ha incontrato il Papa, Leone Magno, e nello scontro tra i due poteri già si presagisce il duetto tra Filippo e il Grande Inquisitore, nel Don Carlo. Centrale è la figura di Ezio, l’ultimo grande generale romano, capace di pronunciare di fronte al tiranno parole che ogni volta mi danno un brivido, e immagino quanto incidessero nel pubblico che alla Fenice di Venezia ascoltava questo fremito di indipendenza, nell’Italia risorgimentale del 1846: «Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me».
Credo che per il pubblico giapponese, così profondamente ancora legato alla cultura dei samurai, con quel senso intimo del dovere del sacrificio, obbligatorio per la causa della libertà, un’opera tanto fiammeggiante come Attila sarà perfettamente traducibile. Il mio obiettivo è farla scoprire dall’interno ai giovani direttori. Che per certo provengono da scuole blasonate – in questi anni ne ho incontrati tanti – ma dove non si insegna l’opera italiana. Nel suo linguaggio specifico, nei suoi principi fondamentali.
Ad esempio, nel rapporto direttore-cantante, dove quest’ultimo ha bisogno del direttore d’orchestra, non per essere “accompagnato” ma valorizzato; guidato nel rispetto della conduzione del fraseggio, della agogica musicale, della precisione delle note. Ci vuole autorevolezza in chi è sul podio. Per ribadire che l’opera italiana non è uno show, non è l’urlo per catturare il facile applauso. La potenza popolare del nostro repertorio lo ha talvolta ridotto a un uso blasfemo, improprio, dove si tende all’effetto, non alla sostanza musicale.
In Giappone sono molto aperti a questo discorso: pur avendo decenni di storia esecutiva alle spalle, si presentano come una terra ricettiva, vergine. Tengo in particolare a passare loro il concetto che nella scrittura verdiana è già insito un plastico e profondo discorso di regia. Perché Verdi faceva regia con le note, con una fantasia di mezzi e una efficacia di risultati che lascia ad ogni analisi magnetizzati: un ritmo diventa un gesto, un accordo sottintende una azione, e il tutto avviene sempre in maniera fulminea, magari nello spazio di una sola battuta, con una economia espressiva che ci rimanda ai classici, di eterna modernità espressiva.