Robinson, 1 settembre 2024
Intervista a Michelangelo Pistoletto, artista
Nello scorso aprile si è svolto a Marsiglia un incontro su “Arte, sanità e sacro” ispirato al “Lieu de recueillement” che tu nel 2000 hai inaugurato presso l’Ospedale oncologico Paoli-Calmettes della città. Questo «luogo» è suddiviso in cinque sezioni, separate da una griglia, disposte attorno ad un’area centrale come i petali di un fiore. In quattro sezioni è collocato il simbolo della religione cui ciascuna è dedicata – ebraica, cristiana, buddista, islamica – scelti dai rappresentanti delle rispettive comunità religiose locali. Nella quinta sezione, dedicata ai laici e a ogni altra confessione, sono posti alcuni libri. L’area centrale ospita il “Metro cubo d’infinito”.
«I pazienti di questo ospedale si recano nel luogo della propria religione, ognuno nel luogo del proprio conforto. Il dolore è quello di sapere che la vita se ne sta andando. È qui che si pensa: ma allora è possibile che tutto finisca? Possibile che quel poco che ho, che è niente ma è la vita, svanisca nell’intangibile? Ma è un tangibile sapere di esistere. Forse la religione è la banca del bene prezioso della vita, dove metti il bene più prezioso che abbiamo, cioè la vita».
Volevo ripartire da ciò che il Papa ha detto visitando il padiglione della Santa Sede alla Biennale d’arte di Venezia. Per lui l’arte riveste lo statuto di «città-rifugio, una città che disobbedisce al regime di violenza e discriminazione per creare forme di appartenenza umana capaci di riconoscere, includere, proteggere, abbracciare tutti, tutti a cominciare dagli ultimi». Francesco trae ispirazione dalle città-rifugio che sono un’istituzione biblica menzionata già nel codice deuteronomico destinata a prevenire lo spargimento di sangue innocente e a moderare il desiderio di vendetta e cercare forme di riconciliazione. Il papa ha poi affermato: «Sarebbe importante se le varie pratiche artistiche potessero costituirsi ovunque come una sorta di rete di città-rifugio collaborando per liberare il mondo da antinomie insensate ormai svuotate, ma che cercano di prendere il sopravvento nel razzismo, nella xenofobia, nella disuguaglianza, nello squilibrio ecologico e nell’aporofobia, questo terribile neologismo che significa “fobia dei poveri”. Dietro a queste antinomie c’è sempre il rifiuto dell’altro, c’è l’egoismo che ci fa funzionare come isole solitarie invece che come arcipelaghi collaborativi». Michelangelo, che cosa ne pensi? Come percepisci queste parole del pontefice? Io noto una sintonia profonda col tuo pensiero.
«Sono perfettamente d’accordo perché quel testo avrei potuto scriverlo io. Sento che parla della “Cittadellarte” così come l’ho pensata: ho messo tanta passione per crearla. Sto realizzando questa città da tanto tempo. Il suo scopo è quello di porre l’arte al centro di una trasformazione responsabile della società, portando l’arte a intrecciarsi con i diversi settori del tessuto sociale. È una fucina artistica che si propone di concepire nuovi modelli di vita civile».
E ha concluso con un appello accorato: «Vi imploro amici artisti: immaginate città che non esistono sulla carta geografica, città in cui nessun essere umano è considerato un estraneo». Il Papa parla di città-rifugio. Tu senti che la “Cittadellarte” sia un rifugio?
«La parola “Cittadellarte” include rifugio ed estensione. Rifugio nel senso che la cittadella è la rocca, il luogo protetto fino all’ultimo della resistenza. Il luogo in cui si mantiene la possibilità di sopravvivere. Questa è la cittadella, cioè la parte alta, la parte conservativa. E la città, invece, è quella che sta intorno alla cittadella ed è estensiva, è il popolo, è la vita comune che si diffonde e si moltiplica in tante città. Con la “Cittadellarte” ho perfettamente la coscienza che sto realizzando quello che il Papa ha descritto».
Mi colpisce il modo in cui questa cittadella è un rifugio rispetto a un mondo in cui prevale il desiderio di vendetta, in cui non sono tutelati i diritti umani, quindi diciamo che ha un impatto sulla società.
«Sì, certamente, perché “Cittadellarte” ha come programma la connessione di tutti i settori che compongono la vita sociale, dall’economia alla politica, dalla scuola alla religione, dall’agricoltura alla moda, al comportamento, tutti gli ambiti del tessuto sociale, questo era scritto nel mio Manifesto Arte del 1994».
È interessante però che il Papa insista su questa azione dell’arte che aiuta a non arrendersi, a liberare il mondo dalle disuguaglianze.
«Il Papa sta parlando di pace, ma come si ottiene la pace? Il mio lavoro è totalmente impegnato in maniera sempre più chiara, sulla pace preventiva. La pace è qualcosa che viene considerata come la fine di una guerra. E noi dobbiamo fare che la parola “pace” sia il titolo del nostro film sulla terra».
Voglio tornare al discorso più teologico. Tu nel ’76 durante una performance hai scritto su un muro: «C’è Dio? Sì ci sono!». Questa affermazione decostruisce la struttura piramidale in cima alla quale è posto un vertice assoluto, che è proprio del monoteismo. Ma non c’è il rischio di una sorta di narcisismo assolutistico?
«C’è Dio? L’unica cosa cui posso rispondere è che io esisto. Ma non dico: “No, non esiste”, dico: “Sì, ci sono”,allora questo “sì” vuol dire che non nego il fatto che possa esistere, quindi se esiste Dio, esiste perché io ci sono e posso decidere che Dio esiste e parla con la mia voce. Perché è un pensiero dell’umano, perciò l’unica cosa certa è che io mi vedo nello specchio e so che esisto».
Ma rimbalzare sempre sull’io, anche quando si parla dell’altro, non è un atto narcisistico?
«Tra tutte le cose l’io è inevitabile, nel gioco della vita ci siamo io e te e dobbiamo fare la nostra partita, quindi l’io esiste e anche il tuo io si deve assumere la capacità di capire o di essere responsabile, quindi l’io non esclude l’altro. Infatti, se un bambino mi chiede: “Ma Dio esiste?”, io rispondo: “Sì, tu esisti”».
Però è una frase ambigua perché sembra quasi che Dio esista e sei tu.
«Se esiste sei tu, perché sei tu che lo pensi e quindi se tu lo pensi, tu gli dai vita, ed è questo. Tu dai vita all’altro perché l’altro dà vita a te».
Però a questo punto tu riduci a totalmente altro il tuo pensiero, cioè gli togli l’alterità e lo riduci alla sua pensabilità. Quando parliamo di Dio, parliamo del totalmente altro, come all’altro da me, che non è chiuso nella nostra capacità di comprendere. La domanda su Dio trascende completamente l’esistenza, cioè trascende me. Se tu dici: “C’è Dio? Sì, ci sono” bisogna salvaguardare, il fatto che lui sia totalmente altro, cioè che quando parliamo di Dio non parliamo dell’io. Questa cosa dell’alterità per me è un’esigenza radicale.
«Ma guarda che dentro lo specchio ci sono io e ci sono tutti gli io possibili e immaginabili, ci siamo tutti dentro, non c’è differenza. Dio è dentro lo specchio perché è nel virtuale ed è nel reale. Non c’è niente fuori dall’esistente, noi arriviamo fino alla conoscenza dell’esistente di questo universo».
Ma Dio non è un ente tra gli altri.
«Il metafisico lo associamo al fisico, al fatto che esistiamo, se non esistessimo non se ne parlerebbe proprio, il fatto che se ne parli è importante, perché ne parliamo».
Però alla fine tu non fai un atto di fede generale, fai un atto di fede in te che ci sei.
«Faccio un atto di connessione ampliata fin dove modestamente posso arrivare, nella stupida miapresenza pongo una domanda e alla fine rispondo: “Io ci sono”. Qualcosa m’ha fatto, questo qualcosa che m’ha fatto è qua dentro e soprattutto, pensando, non faccio altro che riflettere qualcosa che è, perché qualcosa lo fa esistere da dentro. Questa è la mia immaginazione, ma non do nessuna certezza per ciò che posso immaginare».
Quindi non dai risposta.
«L’arte è un dinamismo e con la formula della creazione arrivo dove arriva la scienza, però poi la scienza non mi può dare risposte oltre, così come l’arte non può dare risposte oltre. Però è l’intuizione che ha sviluppato l’arte e la scienza, tutte e due. Allora Dio può essere un’intuizione».
Ma c’è sempre una specie di buco di trascendenza, nel senso che poi alla fine ho l’impressione che si giri attorno all’immanenza, ma non si dia una vera e propria trascendenza perché viene riportata alla pensabilità. Per me nel momento in cui si parla di Dio bisogna tutelare una trascendenza. Un tema che, a mio avviso, possiede il germe della trascendenza nelle tue opere è quello dell’“annunciazione”. Mi ha molto colpito che tu hai realizzato nel tempo alcune annunciazioni. Perché questo interesse per l’annunciazione dell’angelo a Maria? In fondo, mi ha colpito che tu abbia usato la parola “annunciazione”: potevi dare qualunque altro titolo, e invece l’Annunciazione è una immagine religiosa classica: Maria riceve un messaggio, dall’esterno, dall’altro. Perché questa cosa ti ha colpito?
«Il termine “annunciazione” è un termine del sistema religioso, sì. Io l’ho usato in maniera non rispettosa del canone. Ho portato la simbologia del quotidiano all’esterno di sé stessa. L’Annunciazione è qualcosa che sta capitando, che arriva, perché c’è un bisogno, c’è una necessità, è la grazia cioè la parte virtuosa che tu ricevi e offri. È un po’ ciò che accade tra noi due. Il fatto importante è che noi siamo due persone che appartengono a due mondi diversi, che però si ritrovano. Questo è il punto. Tu, padre Antonio, sei la parte religiosa che mi sta cercando, e tu sei la parte artistica che io sto cercando nella religione. Questa è una ricerca di un oltre nell’altro».