Avvenire, 1 settembre 2024
Intervista a Marco Bellocchio, regista
«Sono doppiamente onorato di ricevere il Premio Bresson, sia per le autorevoli istituzioni che me lo hanno conferito sia perché Robert Bresson è sempre stato il mio faro». È un Marco Bellocchio sorridente e di bianco vestito quello che ha ricevuto ieri il prestigioso riconoscimento dalle mani di Giuseppe Tornatore che fu il primo a vincerlo 25 anni fa nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e dalla Rivista del Cinematografo che l’hanno istituito con il patrocinio del ministero per la Cultura e l’Educazione e del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede.
L’84enne regista piacentino di Buongiorno notte, La Cina è vicina fino a Rapito, del 2023, presenta oggi a Venezia il cortometraggio fuori concorso Se posso permettermi, Capitolo II. Nella motivazione del premio, letta dal presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo monsignor Davide Milani, si legge che Bellocchio «ha saputo catturare l’attenzione del pubblico e della critica con opere innovative e provocatorie» mentre in una lettera indirizzata al regista, il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, lo definisce un «genio creativo» dalla «straordinaria capacità di esplorare la complessità dell’animo umano attraverso una lente cinematografica unica, incisiva e riconoscibile».
Maestro Bellocchio, lei ha ricevuto moltissimi premi nella sua carriera ma questo forse un tempo non se lo sarebbe aspettato.
«I tempi son cambiati. In me soggettivamente: la parola dialogo, il capirsi anche fra chi ha idee diverse, in me era meno presente in passato, c’era una contrapposizione. Rivendico di non essere credente, però mi interessa parlare con chi crede, proprio perché ci sono in questo mondo disastrato tanti di quei temi di interesse comune. Basti pensare alle atrocità che avvengono nel mondo, a questa intolleranza assoluta, senza voler dare la colpa a questo o a quello. Ecco, posso anche usare parole evangeliche come la buona volontà, la comprensione, l’amore per il prossimo che è rarissimo e difficile. Insomma, la mia è una posizione sul dialogo».
Che importanza ha avuto per lei un regista come Robert Bresson?
«Quando ero giovane e frequentavo la scuola di cinema, per me Bresson era un faro. Era chiara quale fossero la sua religiosità e il suo rapporto con la cristianità. Ma a me ventenne colpì il suo rigore, il suo stile a cui è sempre stato coerente. Tanti registi cambiano per ragioni personali o materiali, anche per opportunismo, mentre lui è stato assolutamente lineare. Anche se non ero più cattolico, la mia formazione era di intransigenza e lo ammiravo moltissimo».
Andrebbe probabilmente ricordato un po’ di più…
«Eh sì, certamente. Quando ero al Centro sperimentale decisi di sprovincializzarmi da Roma e di andare a Londra per seguire una scuola di cinema: proposi una tesi proprio sul modo di affrontare la recitazione e gli attori di Bresson e Antonioni. Bresson in particolare, perché era rigoroso anche nel suo metodo di lavoro con gli attori. Insegnava agli attori, che poi erano persone prese dalla strada, una perfetta e assoluta memoria delle battute perché al momento delle riprese non avessero il tempo di pensare alle cose che dicevano, in modo da avere una naturalezza quasi monotona e che è invece estremamente espressiva. E poi una essenzialità… nei suoi film non c’è una inquadratura inutile, ogni immagine ha la sua necessità».
Lei inoltre è tra gli artisti che il Papa ha invitato nella Cappella Sistina l’anno scorso...
«Eravamo tanti, alla fine c’è stato un breve saluto personale e c’è stata l’emozione di stringere la mano al Papa. Io però gli avevo già scritto perché mi sarebbe piaciuto che vedesse il film Rapito, poi non lo so se lo abbia fatto. Mi ha colpito il suo discorso. Francesco muove dal principio per cui l’arte più che un linguaggio è un percorso che superando la razionalità, la logica, il visibile, permette di penetrare l’invisibile. È qualcosa che ha che a che fare con la fede, certo, ma è un principio che io condivido».
Lei ha cercato di penetrare “l’invisibile” anche indagando le complessità della storia italiana, penso ai suoi lavori sul rapimento di Aldo Moro capaci anche di parlare al grande pubblico televisivo.
«Il discorso è sempre quello di combi-nare uno sguardo personale con la realtà. Raccontare la tragedia di Moro, il suo sequestro che gli storici ormai considerano un momento cruciale della storia italiana. In una serie tv breve devi sforzarti di sintetizzare, di scegliere i momenti che sono strategici per questa storia sulla quale tu puoi aggiungere la tua immagine e combinarla con la realtà».
Una realtà che lei ha vissuto attraverso l’impegno politico.
«In quell’Italia io c’ero in mezzo, ma io ero già adulto, nel ‘78 avevo 39 anni, ero già uscito da una stagione di utopia radicale in cui non sono stato mai assolutamente tentato da movimenti insurrezionali o terroristici. Senz’altro c’era nella nostra generazione il pensiero che certe idee avrebbero potuto cambiare la società. Come, non lo sapevamo. Era un’utopia quasi religiosa. E con il sequestro e l’assassinio di Moro qualcosa si è spezzato».
Cosa racconterà la serie tv che sta per girare sempre su quel periodo dedicata ad Enzo Tortora?
«Sarà qualcosa di analogo. Quello di Tortora è un caso giudiziario incredibile, un’assurdità, una negligenza, una cecità da parte di certi giudici. Non capire la sua assoluta innocenza e accanirsi proprio perché era una celebrità della televisione italiana. C’è tutta una serie di temi storici che speriamo possano fare racconto».
Il suo racconto più personale è stato nel 2021 il documentario “Marx può aspettare” in cui ha avuto il coraggio di ripercorrere la storia del suo fratello gemello Camillo e del suo suicidio.
«Per fortuna ho colto l’ultima occasione per raccogliere le ultime testimonianze dei miei familiari, alcuni sono morti nel frattempo, fondamentali per questo film che è uno di quelli ai quali sono più affezionato».
Come è affezionato a Bobbio, il luogo delle sue radici che vediamo anche nel suo ultimo corto, Se posso permettermi Capitolo II.
«Bobbio per me è un luogo più che familiare, sono nato a Piacenza, ma le estati le passavo lì, nella stessa casa del corto in cui ho girato anche I pugni in tasca. Ricordo i miei genitori, i miei fratelli, gli amici di cui tanti non ci sono più. Il film, che è il seguito del Capitolo I, è stato ideato e scritto da me, ma poi rielaborato e in parte riscritto con gli studenti del corso di alta formazione cinematografica Bottega XNL–Fare Cinema dell’anno 2023. Poi è stato girato sempre con gli studenti e con dei grandi professionisti, e generosamente interpretato da attori eccezionali. È questo che mi ispira: lavorare con questi giovani, ma coinvolgerli. C’è speranza nel futuro del cinema».