Avvenire, 1 settembre 2024
Tra i serbi in Bosnia, dove c’è vento di secessione
Banja Luka (Bosnia Erzegovina) - Sessantadue pilastri quadrati di cemento si innalzano già verso il cielo, di fronte alla grande cattedrale ortodossa di Cristo Salvatore. Il nuovo monumento ai soldati caduti di quella che viene definita “guerra di difesa patriottica” sarà ultimato in tempo per il trentennale della pace di Dayton, che cade l’anno prossimo. Nella capitale serba della Bosnia Erzegovina si continua a negare ogni responsabilità ribadendo una lettura revisionista della storia recente in spregio alle sentenze della giustizia internazionale e a chi, in quella stessa guerra, rimase vittima di una feroce pulizia etnica. «I partiti nazionalisti al potere si sono appropriati del passato e fanno di tutto per alimentare le divisioni tra la gente. Anche mio padre era un soldato che morì in guerra nel 1994 ma quel monumento non mi rappresenta affatto», ci spiega Dajana Umicevic, attivista serba 32enne della scuola di pace di Banja Luka. Dopo aver vissuto a lungo come profuga in Italia, Dajana ha fatto ritorno nel suo Paese e da anni lavora per la pace e la riconciliazione, anche con la Caritas locale, in una città dove il revisionismo e il negazionismo hanno raggiunto livelli parossistici. «Quella guerra non ha avuto assolutamente niente di patriottico, non ci sono stati né vincitori né vinti, perché in guerra perdono tutti». Ma in città e nel resto del territorio della Republika Srpska (l’entità serba della Bosnia Erzegovina) non sono molti a pensarla come lei. Ce lo confermano i murales e i graffiti dedicati al generale Ratko Mladic, il “macellaio di Srebrenica” condannato all’Aja per genocidio e crimini contro l’umanità ma ancora celebrato come un eroe da una parte della popolazione. Il 6 ottobre prossimo la Bosnia è attesa al voto per le amministrative in un centinaio di municipalità del paese ma alcune settimane fa la Corte costituzionale di Sarajevo ha bocciato la nuova legge elettorale approvata in primavera dalla Repubblica Srpska. Secondo gli osservatori locali dell’Osce le iniziative dei serbi di Bosnia rischiano di minare la sicurezza e la stabilità del Paese. Anche il Dipartimento di Stato americano ha ripetuto gli allarmi già lanciati in passato: dietro molte iniziative dei serbi di Bosnia ci sarebbe Mosca, intenzionata a sfruttare le tensioni etniche nei Balcani occidentali per destabilizzare l’intera regione.
L’alleanza tra il Cremlino e i nazionalisti guidati da Milorad Dodik è più salda che mai e i venti separatisti soffiano forte accanto alle bandiere bianche, rosse e blu dello stato serbo che sventolano ovunque in questa parte della Bosnia. Un partito serbo-bosniaco che inneggia alla secessione ha affisso un grande poster di Putin proprio nel centro di Srebrenica, che fu teatro del genocidio del 1995 e oggi fa parte del territorio della Republika Srpska. La vita quotidiana della città è scandita da un silenzio surreale. Tra i pochi negozi del centro che hanno avuto la forza di riaprire si aggirano soltanto pochi anziani. I giovani che erano rimasti se ne sono andati quasi tutti. Sadik Salimovic, veterano dei giornalisti locali che riuscì a scappare da Srebrenica all’inizio della guerra ci accoglie nella sua casa ricostruita da cima a fondo. «Qua la vita si è fermata e la memoria del passato è costantemente sotto attacco – ci dice –, i politici locali hanno modificato la toponomastica contro il volere della cittadinanza nel tentativo di cancellare ciò che è accaduto trent’anni fa. Il sindaco Mladen Gruijcic, anche lui di etnia serba, vorrebbe persino cambiare il nome alla città per riscriverne la storia». «Ci sono voluti ventinove anni perché l’Onu, nel maggio scorso, istituisse una giornata di riflessione e commemorazione sul genocidio di Srebrenica perché finora il veto della Russia l’aveva sempre impedito», ci ricorda Salimovic. «Ciò ha scatenato le ire di Dodik e dei nazionalisti che hanno rilanciato i loro piani per la secessione. Ma gli abitanti della città, sia i musulmani che i serbi, chiedono solo di poter vivere in pace».