Corriere della Sera, 1 settembre 2024
Intervista a Alessandro Borghi, attore
Venezia - Non è fatto di trincee né di avamposti il Campo di battaglia di Gianni Amelio, ma delle corsie e delle sale operatorie di un ospedale. In prima linea, nel film con cui il regista, Leone d’oro nel 1998 con Così ridevano, è tornato in concorso a Venezia, ci sono gli ufficiali medici. Quelli tutti di un pezzo come Stefano, interpretato da Gabriel Montesi, o quelli che la guerra provano a fermarla a modo loro come Giulio (Borghi) rimandando a casa, a qualunque costo, i soldati che al fronte non ci vogliono più andare. E c’è chi si sarebbe sognata medico ma si è dovuta accontentare di diventare infermiera (Anna, il personaggio di Federica Rosellini).
Siamo nel 1918, verso la fine della I guerra mondiale, quando l’epidemia di spagnola sta iniziando a mietere altrettante vittime. «È un apologo utopistico, non un’opera realistica – avverte Amelio, primo dei registi italiani del concorso – che parte dal presupposto che le guerre fanno male alla povera gente, colpiscono sempre gli innocenti. I film non li penso, li sento nelle viscere. Il mio è un film sulla guerra senza immagini di guerra. Quelle vere ormai ci sembrano irreali perché le vediamo troppo. Non solo a Gaza, in Ucraina, ma anche altrove. Per me è guerra anche l’affondamento di un gommone. Davanti alla tv subiamo le emozioni anziché viverle, perciò Campo di battaglia va visto al cinema». Ci arriva il 5 settembre. Amelio lo ha scritto con Alberto Taraglio, ispirandosi al romanzo La sfida di Carlo Patriarca.
Il cuore di tutto è la guerra di Giulio contro la guerra. Con metodi poco ortodossi, arrivando a amputare arti sani in cambio di un congedo sicuro. «La sua è una spinta condivisibile – spiega Borghi —, sembra il buono della storia, fa di tutto per rimandarli a casa. Ma, da padre, mi chiedo: sarei contento se capitasse a mio figlio? Meglio salvare una vita o l’integrità fisica? Quanto è umano levare la vista a una persona promettendogli la salvezza? Lui si arroga una responsabilità enorme». Al contrario del suo personaggio, Borghi di dubbi ne ha molti. «C’è un tema che mi sta a cuore: la relatività del concetto di giusto e sbagliato. Io lascio completamente fuori la mia prospettiva quando lavoro a un personaggio, con il camice e la divisa di Giulio le mie azioni erano le sue. Ma se mi chiedete cosa avrei fatto io, non credo che mi sarei assunto quella responsabilità». Non basta, dice, essere contro la guerra. «L’unico conflitto che concepisco è quello con sé stessi, sperando di uscirne vincitori. Chi prende la parola ha una grande responsabilità. Oggi si fa un post sui social e in un secondo cose improbabili diventano verità. O si risolvono i problemi del mondo. Mi chiedono: perché non ti esponi? Ma mettere la bandiera della Palestina su Instagram non fa finire la guerra». Misura le parole («Ho il terrore di non essere capito»), ma non si sottrae. «Patria? Nazione? Non sono un nazionalista, non sono per la patria, non mi sento un italiano orgoglioso. Mio figlio si chiama Heima, vuol dire nel mondo e a casa allo stesso tempo. Oggi per alcuni la libertà è avere tutte le persone di un’altra etnia fuori da questo Paese, per altri invece la libertà è accoglierli». Questo il nostro campo di battaglia. «Credo che sarà la più grande guerra che ci impegnerà nei prossimi anni».
Amelio, dice, lo ha riportato alla bellezza del cinema. «Per lui sono dimagrito 12 chili. Non me lo ha chiesto, ma mi ha fatto una foto e mi ha detto: sembri Anthony Hopkins. Mi è sembrato un complimento ma me la sono appesa sul frigo». Sempre in cerca di progetti diversi, ha finito di girare Il Prigioniero di Alejandro Amenábar, sul giovane Miguel de Cervantes.