Corriere della Sera, 1 settembre 2024
L’educazione scolastica di Sabino Cassese, giurista
Tratto da Autobiografia intellettuale di Sabino Cassese (Mondadori)
Ho avuto bravi e severi insegnanti al ginnasio e al liceo classico Torquato Tasso di Salerno. Ne ricordo in particolare due. Il sacerdote Luigi Guercio, che mi insegnò italiano e latino, grande latinista e per due volte, nel 1950 e nel 1952, vincitore del concorso internazionale di prosa latina Certamen Capitolinum (in occasione del secondo premio, andai con lui e con altri studenti per la prima volta a Roma, per festeggiarlo). E il professore di greco Carmine Coppola, chiamato lord Brummel per la sua impeccabile eleganza, che poi lasciò il liceo per insegnare paleografia greca alla facoltà di Lettere dell’Università di Salerno.
Uno dei miei insegnanti, al ginnasio, mi instillò l’uso di governare il mio tempo, che cominciai ad applicare in maniera rigida, preparando ogni giorno un piccolo foglio nel quale segnavo gli orari della giornata, che rispettavo al minuto. Quell’insegnante ricordava che Vincenzo Gioberti aveva scritto che «il buon uso del tempo è una delle prime virtù civili»; «l’uomo per riposarsi non ha d’uopo di oziare, ma solo di intermettere le varie operazioni, alternando l’una con l’altra», e sapeva che per Benjamin Franklin «il tempo libero è tempo per fare qualcosa», e che Benedetto Croce aveva «orrore del perdere tempo». Lo stesso insegnante mi indusse a una rigida programmazione dei compiti, per cui, nello studio dei «compiti a casa», ero sempre in anticipo di almeno dieci giorni. (…)
Solo più tardi, leggendo Nietzsche, ho capito davvero l’importanza di una buona scuola. Nietzsche scrive nel 1888: «Io non riesco a vedere come un individuo possa rimediare al fatto di non aver frequentato al momento giusto una buona scuola. Costui conosce sé stesso; cammina sul sentiero della vita senza aver imparato a camminare; a ogni passo che fa si rivela la sua floscia muscolatura...». (…)
Ho avuto anche compagni di studio di grande valore: ne voglio ricordare uno, Vincenzo Barba (1937-2012). Veniva da una famiglia poverissima. In una poesia intitolata Tombe, pubblicata postuma da due suoi nipoti, scriveva nel 1988, riferendosi agli amatissimi genitori: «Non ebbi da voi pane a sufficienza/né abiti né scarpe/né libri né quaderni per lo studio,/né parole a conforto/della pena d’un ragazzo pezzente/tra sazi e ben vestiti compagni». Ricordo che l’intera famiglia, composta di quattro persone, viveva in una sola stanza, e, quando mi ero ormai allontanato da Salerno per studiare a Pisa, seppi dai miei genitori che si era presentato a casa chiedendo un aiuto, perché – disse – aveva fame. Una povertà tanto sconosciuta, oggi, da essere forse incomprensibile, che tuttavia non gli impedì di perseguire gli studi e di diventare professore di Storia della filosofia all’Università di Salerno e di pubblicare importanti studi sulle correnti radicali dell’Illuminismo francese, traducendo altresì e curando edizioni italiane di opere di Diderot, di d’Holbach e di Helvétius.
Nell’asfittica vita culturale salernitana dell’immediato dopoguerra, una grande novità fu l’apertura della libreria Macchiaroli, che divenne rapidamente un piccolo centro di attività culturale. Ricordo, in particolare, l’iniziativa di Aldo Falivena (che diventerà poi notissimo giornalista nella carta stampata e in Rai) di presentare libri. All’iniziativa, che aveva per denominazione Il lettore, partecipai anche io quando ero già a Pisa, proponendo dei libri durante una delle pause estive.
Le letture di quegli anni furono di tipo diverso. Da un lato, gli autori appartenenti a un filone che potrei chiamare di letteratura nazional-popolare, come Vasco Pratolini, i cui romanzi allora avevano grande successo. Dall’altro, gli autori americani che venivano scoperti grazie a Cesare Pavese, Elio Vittorini, Italo Calvino, e cioè Caldwell, Steinbeck, Faulkner, Hemingway, Dickinson.
Se gli echi della grande cultura arrivavano in quegli anni molto attutiti in Italia e, in particolare, nel Mezzogiorno, si faceva invece sentire la politica. Ricordo, in particolare, la competizione elettorale del 1948. Era un’epoca in cui i manifesti riempivano le città, perché quella era la forma con la quale i partiti potevano comunicare con l’elettorato, considerati la scarsa diffusione dei giornali, il rigido controllo sulle trasmissioni radiofoniche, l’assenza della televisione e, ovviamente, di Internet.
La molta curiosità politica e forse anche un po’ di spirito archivistico ereditato dalla famiglia (ma già allora consapevole che il documento d’archivio è «vuota narrazione», che prende vita nell’opera dello storico, come scrisse Adolfo Omodeo) mi spinsero a fare una raccolta dei manifesti elettorali di quella competizione, poi andata dispersa nei miei spostamenti verso il Nord e a Roma. (…) Potrei dire con Borges che il principale evento della mia vita non fu la scoperta della politica, bensì la biblioteca di mio padre, che agli interessi archivistici univa quelli storici, letterari e politici, grazie ai quali aveva intrattenuto rapporti con Carlo Muscetta, Luigi Russo, Piero Gobetti, Giorgio Amendola (nell’ultima parte della sua breve vita, divenuto libero docente, insegnò prima nella Università di Napoli, poi in quella di Roma). Studiai i libri uno per uno, anche perché avevo deciso di completare una schedatura che lui aveva avviato e mai ultimato.
Fu grazie a un ottimo insegnante di ginnasio e a eccellenti professori di liceo che appresi un metodo, che applicai rigorosamente, facendo mio il motto riferito da Plinio ad Apelle, nulla dies sine linea, tanto da esser definito in casa «il tedesco». L’attributo aveva qualche fondamento, che mi è stato chiaro solo molto più tardi, quando ho letto il bel libro di Adriano Prosperi su Lutero. Fu Lutero che definì il concetto di Beruf, affermando che ciascuno ha il suo compito specifico assegnato da Dio. Il concetto è ricavato da un passo di Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, che traduce la parola latina vocatio e comporta una qualificazione etica della vita professionale mondana, come osservato da Max Weber. L’ufficio, o incarico, o mestiere, è una chiamata che va assolta con serietà e coscienza.
Per comprendere, però, le condizioni nelle quali si viveva in una media città del Mezzogiorno alla metà del secolo scorso, bisogna intendere la distanza che c’era tra speranze e aspettative, da un lato, e realtà, da un altro, una distanza che si poteva colmare soltanto fuggendo dal Sud. Questo hanno fatto molti meridionali in quegli anni (basti pensare ad Aldo Falivena, che ho poco prima ricordato, il quale nel 1958 si trasferì a Milano). Ed è questo ciò che continuano a fare le giovani forze meridionali ancora oggi.