Corriere della Sera, 1 settembre 2024
Intervista a Giacomo Poretti sull’empatia
Giacomo Poretti, la emoziona l’idea di insegnare all’università?
«Eh sì... Un po’ di orgoglio c’è in questa cosa. Ho avuto una vita fortunatissima, ma anche faticosissima. E non mi capacito di come siano arrivati risultati così, pur non avendo percorso una strada convenzionale: non ho neanche il diploma di scuola superiore».
Quasi si commuove ripensando al suo percorso a ostacoli, partito dalla famiglia umilissima, passando per le scuole serali dopo il lavoro in fabbrica, gli anni all’ospedale di Legnano dove entrò nel 1974 da ausiliario e uscì nel 1985 da caposala. Poi, l’incontro «miracoloso» con Aldo Baglio e Giovanni Storti. Dopo, quello con la moglie Daniela Cristofori, psicoterapeuta e attrice: un figlio insieme, Emanuele, quasi diciottenne. È stata lei a trascinarlo in questa nuova esperienza all’Università Cattolica di Milano, dove in autunno parte il loro corso: «Competenze relazionali per le professioni di aiuto: gli strumenti del teatro»; è aperto a chiunque, purché operi nel campo delle relazioni di aiuto. Saranno cinque incontri tra ottobre e novembre, nei quali metteranno insieme psicologia e teatro. E ci sarà una sessione finale per la messa in scena conclusiva.
Giacomo, cos’è l’empatia?
«È quella capacità di mettersi nei panni dell’altro, cercando di comprendere cosa prova e cosa sente».
Quanto è stata importante la sua esperienza di infermiere, per allenarla?
«Non ci ho mai pensato, ma è molto vero. La professione dell’infermiere ti costringe a percorrere due strade: quella del cinismo, per difesa di fronte alla malattia e alla morte, o il suo contrario. Il lavoro faticoso è stare in equilibrio, trovare la giusta distanza».
Lei come ha fatto?
«Ho avuto una bella intuizione grazie a una caposala suora che aveva un grado di empatia elevatissimo. Nel reparto di oncologia, capì il mio turbamento di fronte al primo morto e mi diede due giorni di ferie. “Vai e distraiti”, disse. Poi mi impartì questa lezione: “Tu devi curare gli ammalati come se fossero i tuoi amici, ma non devi voler bene agli ammalati come se fossero i tuoi amici, altrimenti rischieresti di perderne cinque o sei alla settimana”».
Quali cose pratiche insegnerà con sua moglie?
«Ci sono tanti esercizi teatrali che servono per imparare a stare in relazione. Uno, classicissimo, si fa in due o tre: ti abbandoni all’indietro a occhi chiusi e l’altro, o gli altri due, ti raccolgono. Serve a sviluppare la fiducia. Oppure, magari siamo in 20-30 in una stanza, chiedo a tutti di camminare sempre più velocemente, facendo attenzione a non sfiorarsi: serve a visualizzare gli altri, a non ferirsi».
Quando ha iniziato a fare teatro con Daniela?
«È stata una cosa casuale, anche se nulla succede per caso. Sei anni fa circa al San Fedele ci chiesero di fare qualcosa sui litigi per i corsi prematrimoniali. Un po’ per gioco e un po’ per sfida, ci abbiamo scritto uno spettacolo: Litigar danzando. E dopo quello ne abbiamo fatti altri due, uno sulla morte e uno sul lavoro».
Le piacerebbe coinvolgere vostro figlio Emanuele?
«Sarebbe romanticamente carino, ma Emanuele quest’anno farà la maturità: è un po’ diviso tra l’idea di Design della comunicazione o Giurisprudenza. Ma qualcosa di artistico secondo noi ce l’ha».
Chiudiamo con l’empatia nel trio di Aldo, Giovanni e Giacomo.
«Ha del miracoloso. C’è chi per tutta la vita non impara mai cos’è, mentre tra noi c’è stata subito un’empatia artistica di tipo assoluto: tant’è che le cose migliori le facciamo quando improvvisiamo. Eppure siamo tre tipi che nella vita normale non si sarebbero mai frequentati».