il Giornale, 1 settembre 2024
«Il Tg che preferisco è il Tg4»
Il telegiornale che apprezzo di più tra quelli spadellati all’ora di cena è il notiziario che precede i bastimenti delle ore 20, cioè Tg1, Tg5 e Tg7. È quello che va in onda presto e si conclude prima della partenza dei citati piroscafi diretti rispettivamente da Gian Marco Chiocci, Clemente Mimun ed Enrico Mentana. Parlo del Tg4 edizione delle 19. Ci sono servizi rapidi, con immagini e parole che comunicano l’essenziale, segue il giudizio sul fatto del giorno affidato a interlocutori competenti, di parrocchie politiche diverse, ma che, pur essendo collegati in contemporanea, magicamente non si scalciano tra loro e riescono persino a farsi capire nella differenza dei punti di vista. Un tg civile, mi spiace persino che se non erro si sia fatto negli ultimi tempi più breve. Sto tardando a fornire il nome del direttore, perché giuro ho dovuto chiedere in giro: è Andrea Pucci. Dirige duecento e passa giornalisti, guidando oltre al Tg4, Studio Aperto (Italia1), Tgcom24 (canale 51 e 551), e il quotidiano online Tgcom24. Ed è l’ammiraglio di questa flotta dal 2019. Saputolo, mi sono tirato su il morale: l’ignoranza non era esito di mio rimbambimento, ma di invisibilità del soggetto, un’arte coltivata da quando intraprese il mestiere a ventuno anni e portata alla perfezione adesso che ne ha 63. Solo Andrea poteva essere protagonista di questa performance: salire e, invece di apparire, sparire. Non è mai stato un tipo cui bisognasse chiedere di spostarsi per farci vedere il mondo. Vale ora: non ingombra lo schermo. Valeva quando si esprimeva su carta: non copriva la notizia con il suo ego, né permetteva, avendo responsabilità su sezioni del Giornale, che altri anteponessero la vanità alla realtà. Ne so qualcosa in via diretta. Dal giorno in cui misi piede al Giornale, il 19 gennaio 1994, in via Negri lo ricordo di una lealtà disarmante. Mi fece sapere per telefono che mi avrebbe aspettato dabbasso, sul marciapiede. Detto fatto. Era arrivato presto dalla capitale, dov’era capo della redazione romana, all’ingresso mi consegnò senza sceneggiate la lettera con cui metteva a mia disposizione la sua carica. Pensai: se Montanelli non se l’è portato dietro alla Voce tra i settanta che riteneva i migliori, radunati ormai da mesi (sia Berlusconi sia Montanelli si preparavano al reciproco addio almeno dall’autunno precedente), vuol dire che lo considerava, a trentun anni, un giovane asino, pentito di avergli concesso i galloni da alto ufficiale. Pertanto, gli dissi di rimanere per l’ordinaria amministrazione, sotto esame insomma. In attesa di meglio. Lo confermai in fretta, era una cannonata. Appresi poi che il selezionatore degli eletti era stato il compianto Federico Orlando, condirettore di Indro, una brava persona cui guardavo con sincera ammirazione considerandolo mia garanzia di sopravvivenza, capace con i suoi titoli e i suoi editoriali acquitrinosi di spegnere qualunque falò di entusiasmo nei lettori e nei colleghi. Premonizione azzeccata.
Imparai presto quale fosse la prerogativa di Pucci: non si vede, ma c’è. Lo sperimentai: c’era sempre. Chiaro e svelto a scrivere, ma un fenomeno a estrarre scoop da dietro la scrivania, dove stava appostato già alle sette del mattino, avendo una rete impensabile di fonti, che con lui erano in una botte di ferro di riservatezza, non uno spiffero. Si era costruito un’agenda minuscola e monumentale, c’erano tutti, annotati in grafia lillipuziana: politici potenti coi loro sottopancia, magistrati e poliziotti, compresi i loro informatori. Nomi e numeri trascritti in codice. Era partito dalla cronaca nera, passando poi per la giudiziaria e la politica. Avendo per maestro Guido Paglia, che gli insegnò il mestiere che consiste nell’usare soprattutto i piedi, per vedere, ascoltare, fiutare, e poi solo poi scrivere.
Non aveva nessuna intenzione di fare il giornalista, era un ragazzo che aveva imparato a cavarsela, lavorava nelle serre in campagna, si dava da fare alto e muscolato – come istruttore di nuoto, quindi si era arruolato nell’esercito. Un frontale notturno tra il suo scooterino e la grossa moto di un carabiniere porta ordini lo aveva conciato per le feste (funerarie, probabilmente). I portantini dell’ospedale San Giacomo lo raccolsero come un fantoccio sbrindellato di carne, sangue e benzina. Finì all’ospedale militare, al Celio. Tre mesi per aggiustarlo, nel letto accanto c’era un brigadiere che gli aveva spiegato la sua idea di business. In America andava forte il surf, cavalcare le onde su una tavola. «Ti insegno io», gli promise, «e sfondiamo». L’assicurazione risarcì Andrea con un milione di lire, che nel 1981 erano bei soldi: comprò dieci tavole a centomila l’una, le dispose sulla spiaggia di Praia a Mare davanti all’Isola di Dino (Cosenza). Quell’anno esplose la mania del surf. Si mise a noleggiare gli attrezzi a diecimila lire l’ora, e si faceva pagare il corso accelerato per principianti. Alla fine della giornata aveva in tasca un rotolo di banconote come i benzinai di una volta, due-tre milioni. In una estate s’era fatto ricco.
Al ritorno a Roma, Andrea mostrò di cavarsela bene scrivendo per l’agenzia dell’Unione Monarchica Nazionale, dove s’impratichì, con l’amico Antonio Tajani (di cui sarà testimone di nozze), in un mestiere probabilmente meno decoroso del bagnino di lusso. Sarebbe andato avanti su questa strada dell’acchiappa mestieri senza fissa dimora, ma volle accontentare il papà Mario, capo della redazione del Secolo d’Italia, una firma importante della destra. Entrarono insieme, padre e figlio, nella stanza del capo della redazione romana di un quotidiano importante. Questo tale che pur gli doveva molto lo accolse con sussiego, e quando Mario gli chiese di mettere alla prova Andrea, costui rispose niente-da-fare,-non-c’è-spazio,-ciao. A vedere il genitore, un marcantonio di due metri piegato in due, umiliato davanti a suo figlio da un bell’imbusto da niente, Andrea si ripromise di vendicarlo, portando via il posto al damerino. I due Pucci incontrarono Guido Paglia, il quale venerava Mario, e si prese carico del giovane rampollo, mettendolo duramente alla stanga. Dopo mesi e mesi da garzone di bottega abusivo, ottenne l’assunzione, lo stesso giorno di Tajani. Quando Federico Orlando, diventato condirettore, da Milano afferrò le redini del Giornale, dirigendo la carovana verso sinistra al seguito di Achille Occhetto, ci fu uno sconquasso. Guido Paglia dovette andarsene, come già Arturo Diaconale. Antonio Tajani (di otto anni maggiore di Pucci) si spostò ad Arcore per collaborare direttamente con Berlusconi. Chi scegliere al loro posto? Andrea si ritrovò giovanissimo numero uno nella capitale, per la stima di Indro, il quale solo a lui dava da passare (rileggere e proporre ritocchi) il suo fondo quando era di stanza a Roma.
E così me lo sono trovato servito e già spacchettato come il miglior regalo lasciatomi da Montanelli. A dire la verità sul momento non ringraziai il mio predecessore del lascito. Mi bastarono però pochi giorni per rendermi conto del fuoriclasse che guidava la nostra ciurma nell’Urbe, al quarto piano del palazzotto di piazza di Pietra. Vi misi piede, un po’ di sorpresa, senza farmi precedere neppure da uno squillo di telefono: e trovai quel tizio lungo e magro mentre teneva tra le mani dei fogli strappati con precisione dalle telescriventi che battevano le notizie di agenzia. Li distribuiva ai colleghi avendo già marcato con il pennarello il particolare utile per non essere sbrodolosi e banali. Era un bel vedere, guardare al lavoro Andrea Pucci, trentadue anni, capo della pattuglia romana di giornalisti che erano dati per morti dai colleghi ascesi e sprofondati alla Voce.
Mai nessuno mi aveva riferito Renato Farina, in trasferta nella capitale a far danni con Irene Pivetti alla Camera l’aveva visto entrare il mattino dal portone del vecchio palazzo e neppure uscire la sera, anzi la notte. Con la sua pattuglia di cronisti fu determinante nel condurre l’inchiesta di Affittopoli nel 1995. Il capolavoro riguardò D’Alema. Scoprì che aveva in locazione a seicentomila lire al mese un grande appartamento dell’Inpdai. Pochini. Per decenza dovette traslocare (onore a lui). Il metodo: suonare al campanello, parlare con il portinaio, studiare le carte, verifica diretta con l’interessato, nessun fronzolo. Giudichi poi il lettore.
Questo stile si è rafforzato in Pucci grazie all’esperienza di direttore dell’agenzia di stampa Adnkronos, impreziosita dall’invenzione della notizia-flash in una riga e da un paio di scoop rifilati alla concorrenza: la morte di Gianni Agnelli, la scelta di Marchionne a capo della Fiat. Ed ecco il passaggio al Tg5 come vicedirettore.
Un mese a prendere appunti, tacendo, per imparare da Clemente Mimun e dai semplici redattori il nuovo linguaggio. Ma la base del suo mestiere resta quella molla antica. Onorare il padre, umiliato e offeso dai gagà del giornalismo. Tutto questo spiega l’impronta asciutta eppure emozionante del suo Tg4.