Avvenire, 31 agosto 2024
Kabul rompe con la missione dell’Onu
È rottura totale tra l’Afghanistan e l’Unama, la missione di assistenza delle Nazioni Unite nel Paese. Il ministero della “Promozione della virtù e la prevenzione del vizio”, che funge da polizia morale afghana, ha annunciato che non intende più cooperare con la missione. «A causa della continuazione della sua propaganda – ha annunciato il ministero in una nota diffusa sui social media giovedì sera – non forniremo più alcun appoggio e non coopereremo più con l’Unama, che sarà considerata una parte avversa».
La decisione arriva dopo che la missione si era dichiarata «preoccupata» da una legge recentemente ratificata dalle autorità locali, che impone in particolare nuove restrizioni alle donne. «Vogliamo – ha aggiunto la nota del ministero – che le organizzazioni internazionali, i Paesi e gli individui che hanno criticato la legge rispettino i valori religiosi dei musulmani e si astengano da tali critiche e dichiarazioni che insultano i valori sacri dell’islam». Promulgata lo scorso 22 agosto, la legislazione in questione è composta da 35 articoli che intendono controllare tutti gli aspetti della vita sociale e privata degli afghani. In particolare, la nuova legge prevede sanzioni graduate per l’inosservanza delle nuove regole, che vanno dagli avvertimenti verbali alle minacce, alle multe e alle detenzioni di varia durata. Prevede, in particolare, che le donne debbano coprirsi il viso e il corpo quando escono di casa e assicurarsi che la loro voce non venga ascoltata.
Istituita nel 2002 con la risoluzione 1401 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’Unama si è vista rinnovare ogni anno il proprio mandato senza particolari problemi. L’ultimo rinnovo, che estende il mandato fino al 17 marzo 2025, è stato approvato all’unanimità senza alcuna modifica dei compiti e dei poteri della missione e del suo rappresentante speciale Roza Otunbayeva. Non per questo si può dire che i rapporti tra l’Unama, che conta circa 1.200 dipendenti nel Paese asiatico, e i taleban fossero idilliaci. Come non lo sono stati in generale con il relatore speciale dell’Onu sui diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, che lo scorso 18 giugno ha presentato il suo ultimo rapporto sul Paese. L’Unama ha sempre «deplorato» le leggi basate su un’interpretazione rigorosa della sharia islamica, introdotte negli ultimi tre anni dalle autorità afghane. In particolare, quando i taleban hanno vietato a tempo indeterminato la scuola secondaria alle ragazze afghane. Lo stesso ha fatto Bennett quando ha parlato senza mezzi termini di un sistema di discriminazione, di segregazione, di mancanza di rispetto per la dignità umana e di una condizione femminile tra le peggiori al mondo. Decidere di “rompere” con l’Onu significa quantomeno che i taleban si sentono con le spalle coperte. E qualche indicazione in questa direzione può venire dalle recenti “aperture” arrivate da diversi Paesi, come dagli Emirati arabi uniti, che hanno ristabilito i rapporti diplomatici con Kabul, oppure dalla Russia e il Kazakhistan che hanno deciso di rimuovere i taleban dalle proprie liste delle organizzazioni terroristiche. Il nuovo approccio pragmatico di Mosca si è consacrato nella presenza di una delegazione arrivata da Kabul al Forum economico di San Pietroburgo e nelle parole dello stesso Vladimir Putin secondo cui bisogna confrontarsi con la realtà e la realtà è che a Kabul comandano i taleban. Soprattutto dopo la guerra in Ucraina i rapporti bilaterali hanno preso slancio con la firma di diversi accordi, tra cui uno per la costruzione di una centrale termoelettrica. Un ruolo maggiore rispetto alla Russia lo gioca la Cina, che persegue l’interesse economico. Pechino è interessata alle ricche risorse dell’Afghanistan di elementi chimici per la tecnologia.
Un report statunitense del 2010 ha stimato come nel sottosuolo del Paese centroasiatico vi sia una quantità di “terre rare” del valore di mille miliardi di dollari. La stabilità che i taleban hanno riportato, tre anni fa, in Afghanistan è fondamentale per gli affari. Secondo Pechino, il resto – i diritti umani, per intenderci – può attendere.