Corriere della Sera, 31 agosto 2024
Sharon, è stato l’uomo in bici
Bergamo - Nessun movente legato alla sfera familiare o all’ambiente di lavoro. Niente di tutto ciò. Sharon è stata uccisa da un ragazzo che non sa bene neanche lui perché l’ha fatto: «Non so spiegare perché sia successo, l’ho vista e l’ho uccisa». Una vittima scelta a caso. «Non c’è alcun movente, vittima e fermato non si conoscevano e non hanno mai avuto contatti. È morta Verzeni, ma poteva capitare a chiunque di noi», riflette il procuratore aggiunto Maria Cristina Rota. «Non c’è neanche un movente di tipo religioso o terroristico», aggiunge.
Dopo un mese in cui sono state scandagliate tutte le ipotesi, a partire da quella che portava a un coinvolgimento del compagno Sergio Ruocco, la svolta. A uccidere la barista 33enne è stato Moussa Sangare, un 31enne nato in Italia da genitori originari del Mali. Un’anima inquieta che sognava di fare il rapper ma si è trasformato in assassino. I carabinieri del reparto operativo di Bergamo, guidati dal tenente colonnello Riccardo Ponzone, e il pm Emanuele Marchisio, sono arrivati a lui grazie alla testimonianza di due cittadini marocchini che hanno permesso di collocare il giovane sul luogo del delitto. È proprio lui l’uomo in bici del quale si è parlato in queste settimane. E la sua immagine ripresa in via Castegnate corrisponde con quella di altre telecamere. Prima di uccidere Sharon aveva minacciato con il coltello due ragazzini di 15 e 16 anni, ai quali il procuratore lancia un appello: «Li invito a presentarsi per aiutare le indagini». Al giovane è stata contestata anche la premeditazione e il pericolo di reiterazione del reato: quella notte è uscito di casa portandosi dietro ben quattro coltelli.
Attraverso pedinamenti si è risaliti a lui comparando le immagini delle telecamere con la sua capigliatura, la corporatura e il mondo di andare in bici. Mercoledì sera è stato condotto in caserma, ancora come persona informata sui fatti. Nel suo racconto troppe contraddizioni. Giovedì è stato sentito per tutto il giorno e venerdì mattina alla presenza di un legale d’ufficio, Giacomo Maj. All’alba ha confessato e ha fatto trovare i coltelli che aveva quella notte. Con uno ha ucciso Sharon e poi lo ha sotterrato sull’argine dell’Adda, a Medolago. Le altre lame e i vestiti che indossava li ha buttati sempre nel fiume, dove li hanno recuperati i sommozzatori. Un’ampia confessione la sua, nella quale c’è stato spazio anche per una sorta di pentimento. «Mi dispiace per quello che è successo, anche se non c’è più nulla da fare». Una presa di coscienza quanto meno tardiva, visto che per un mese è stato nell’ombra, nonostante il grande clamore mediatico.
Non avrebbe disturbi di mente certificati. «Ma è molto verosimile che ci sia una problematica psichiatrica – dice il suo legale —. Per quel che ha fatto anche lui non sa dare delle motivazioni».
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«Non so perché l’ho fatto. Ho sentito l’impulso di colpire qualcuno, l’ho vista e l’ho uccisa». Con questo tarlo in testa la vita allo sbando di Moussa Sangare ha incrociato quella di Sharon, morta solo perché intorno alle 00,40 della notte tra il 29 e 30 luglio si è ritrovata per caso sul crocevia sbagliato. A quell’ora Sharon passa da piazza 7 Martiri, il cuore di Terno, per imboccare via Castegnate. Proprio qui incrocia l’uomo che la ucciderà. Lui, in sella alla bici, arriva sulla piazza dalla stessa via che sta per imboccare Sharon. Moussa nota quella ragazza in jeans, sneaker e cuffiette alle orecchie. Pedala ancora un minuto verso la piazza. Poi, forse, pensa: eccola, è lei la preda da colpire. Non i due ragazzini che aveva minacciato poco prima con il coltello. Allora si blocca sui pedali, inverte la marcia e si avvia anche lui su via Castegnate
Raggiunge Sharon all’altezza del civico 32. Con la musica nelle orecchie lei, probabilmente, non si rende conto della morte imminente. Per assestare la prima coltellata al petto Moussa la colpisce infatti da dietro. Sharon sente la stretta al braccio sinistro e poi la lama che la trafigge al petto. Una ferità già devastante. «Ma l’assassino pensa che non basti – spiegano gli inquirenti —, perché il coltello rimbalza nel costato». Quindi la colpisce altre tre volte alla schiena. Sharon barcolla, attraversa la strada, tenta di suonare al campanello di una villetta. Non ha le forze. Cade a terra. Prima di morire chiama il 118 e sussurra: «Mi ha accoltellata». Sono le 00,52. L’assassino sfreccia via veloce.
Di lui resta l’immagine della telecamera di una banca all’imbocco di via Castegnate. Un frame ripreso prima, non dopo il delitto come si è sempre detto. Ma è solo una sagoma indecifrabile di un uomo in bici. Per un mese è stata anche l’unica traccia in mano agli inquirenti.
La svolta arriva per caso quando due cittadini marocchini si presentano dai carabinieri per segnalare che quella notte avevano notato due persone sospette aggirarsi nella zona del delitto. «Le persone segnalate – dicono i militari – erano nei pressi del luogo del delitto ma non c’entravano nulla». Decisiva però è la collocazione degli stessi testimoni. Quella notte infatti erano nei pressi di via Torre, una traversa di via Castegnate. Viene chiesto loro: «Avete visto uno scappare lungo via Castegnate?». «No – rispondono —, abbiamo visto uno che risaliva la via». Era l’assasino che pedalava verso la piazza dove incrocerà Sharon. Ma qual è stato, dunque, l’elemento decisivo? La sequenza temporale. I due testimoni sono infatti ripresi in via Torre alle 00,27. E a quell’ora passa un uomo in bici che è lo stesso che, minuti dopo, viene ripreso in piazza 7 Martiri, poi dalla telecamera della banca di via Castegnate, da un’altra alla fine di via Castegnate e, soprattutto, da quella di Chignolo d’Isola che, a differenza delle altre, restituisce un’immagine più chiara. L’unico buco non coperto da telecamere è il tratto dove avviene l’omicidio. Ma con tre punti fermi trovare il quarto mancante è un passo avanti.
Comincia così il controllo a tappeto sul territorio con centinaia di militari in borghese. Fino a quando non viene individuata una persona che per stazza, capigliatura e modo di andare in bici potrebbe corrispondere. Mercoledì sera il sospettato viene portato in caserma, come testimone. Quando vede i carabinieri prova a fare resistenza e già questo insospettisce. Dice di non sapere nulla, ma il suo racconto è traballante.
Quindi la mossa che lo incastra. Giovedì vengono convocati i due testimoni. Lo riconoscono: «È lui». Interrogato per tuto il giorno crolla ieri mattina. «Mi hanno chiamato alle 4 del mattino» dice l’avvocato d’ufficio Giacomo Maj. Alle 5,30 Moussa confessa: «Sono stato io, non so perché l’ho fatto».