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 2024  agosto 31 Sabato calendario

Quelli come Evandro Straccini, autore di una saga in diciassette volumi che quasi nessuno ha letto

Quando ho scoperto Evandro Straccini ero convinto che la letteratura si dividesse tra giusta e sbagliata. Quella giusta era affare mio, di Buzzati, Cortàzar e degli altri autori morti che mi piacevano, quella sbagliata era di più o meno tutti gli altri. All’inizio, per me, Evandro Straccini era solo una serie di post e foto di Facebook che, nel loro insieme, componevano una piccola fenomenologia. Gli elementi primi erano Evandro Straccini stesso e i suoi libri, ricombinati in due diverse varianti: c’era l’Evandro che sorrideva serafico davanti ai suoi libri e c’era la sua versione accigliata, senza occhiali, che guardando in camera con cipiglio grottesco sparava frasi scanzonate: tipo che, per scrivere tutti i libri che aveva in mente, gli avrebbero fatto comodo Stephen King e James Patterson come ghostwriter. Magari anche Dante, se solo non fosse morto.
Poi c’era la sua opera: volumi massicci autopubblicati, con copertine monocrome illustrate da Evandro Straccini stesso, che potevano essere finiti, oppure in fieri, nella forma di un file word aperto sul portatile. I titoli seguivano la partitura propria di tante saghe fantastiche: Il giardino delle tenebre diurne, I cancelli di luce lunare, Il teorema della realtà diminuita… Solo in seguito mi sarei reso conto di un terzo elemento, che mi avrebbe mandato in cortocircuito mentale. Gli sfondi: soffitti bianchi, lo scorcio di un salotto vissuto, le piastrelle di una cucina… schegge di quotidianità e iperrealtà che si piantavano, quasi di straforo, in uno spazio riservato a universi paralleli.
Cominciai a sviluppare un’ossessione. Continuavo a tornare sul suo profilo, nella strana attesa di un’altra dichiarazione sul fatto che aveva più libri da scrivere che anni da vivere, di un’ulteriore promessa sul fatto che avrebbe portato a termine la sua saga, di una nuova foto di mondi paralleli su tovaglie di plastica…c’era qualcosa in lui che mi toccava profondamente. Non sapevo cosa, sapevo solo che un uomo sui quarant’anni abitava con entusiasmo due dimensioni, quella romanzesca dei suoi universi infiniti e quella fattuale di un piccolo appartamento da qualche parte nel milanese. Ne ero affascinato come da un mistero, la soluzione del quale, ne ero certo, doveva avere un senso “grande”, solo che non avevo idea. Per sette anni ho cercato di dimenticarlo, ma senza riuscirci.
Ogni tanto tornavo sul suo profilo. Aveva cominciato a girare le fiere coi suoi libri e così, nel maggio del 2023, decisi di incontrarlo al Japan Show di Cremona, un’esposizione neonata occupata per metà da vasche circolari in cui nuotavano carpe koi, in concorso per il più bell’esemplare italiano. Ho riconosciuto il banchetto di Evandro Straccini da lontano e, senza sapere perché, mi ci sono avvicinato con la cautela di una spia. L’ho ascoltato presentare i suoi libri, ne ho comprato uno, me lo sono fatto firmare e me ne sono andato. Evandro mi aveva assicurato che, pur facendo parte di una saga unitaria, i suoi libri sono leggibili anche singolarmente.
Il cacciatore di numeri apre con una dedica dell’autore ai suoi genitori, per poi gettarsi a capofitto tra gli stravolgimenti del ciclo Caos Zeidos, una saga in diciassette volumi in cui si combinano fantascienza, steampunk, fantasy, mitologia e l’immaginario mecha della tradizione giapponese, quella dei robot giganti. Apre una cosmogonia, chiude un’escatologia finale: nel mezzo, la storia parallela di cinque universi in cui, a fare da collante, è la presenza degli Zeidos, divinità ispirate a qualche pantheon pagano. La storia, nel suo complesso, tratta dello scontro tra bene e male intesi come sistemi di valori fluidi, non assoluti. La tecnologia gioca un ruolo chiave e per questo nel libro compaiono, estrapolati dal loro contesto d’origine, scienziati e inventori dell’Ottocento: Tesla, Majorana, Darwin, Diesel, Lombroso…
Mi sono messo a leggere Il cacciatore di numeri e, più leggevo, più si riaccendeva in me il desiderio di tornare a indagare il mistero da cui ero stato stregato e che mi aveva condotto a Cremona. Ma resistevo. Che cosa spinge un uomo a scrivere così tanto, e a vivere per i suoi libri e a occupare ogni momento libero per promuoverli, anche se nessuno tranne me e qualche altro li legge? Che cosa ci spinge a inventare mondi immaginari, che al mondo reale non interessano? Ho aspettato un altro anno e gli ho scritto. Lui ha accettato di incontrarmi, rispondendo a ogni domanda, senza reticenze. Finalmente Evandro Straccini, che per me era sempre stato solo una fenomenologia di post e di foto di Facebook, è diventato una persona vera.
Per molti anni la vita di Evandro, che è nato nel 1968, ha seguito la parabola di tante altre esistenze italiane: l’infanzia, le scuole dell’obbligo, la professionalizzazione, il lavoro da geometra, poi, l’8 febbraio 2000, durante una trasferta ad Alessandria, non potendo tornare a casa, l’idea di passare la serata scrivendo. Compra un paio di quadernoni in cartoleria, torna in albergo e comincia a buttare giù qualche idea per un romanzo. Quella sera si diverte, così il giorno dopo continua. E continua quello dopo. E quello dopo ancora. Ci vogliono 12 anni, ma nel 2012 il ciclo Caos Zeidos è programmato in ogni dettaglio.
Nello stesso anno Caos Zeidos esce per il Gruppo Albatros, un editore a pagamento. Come spesso capita in questi casi, l’autore si ritrova con diverse centinaia di copie strapagate del libro che ha scritto e deve capire come smerciarsele da solo. Anche perché, in concomitanza con l’uscita di Caos Zeidos, Evandro perde il lavoro da geometra e rimane disoccupato. Prende una decisione d’istinto: farà lo scrittore e continuerà ad autopubblicarsi. Struttura le sue giornate secondo orari rigidi: tempi di scrittura fissi la mattina e il pomeriggio, qualche ora d’illustrazione verso sera. Dopo cena si dedica alla lettura. Se finisce un romanzo, invece di considerare finita la giornata, ne inizia un altro. Non ci sono giorni liberi.
Seguendo questo metodo, Evandro Straccini riesce ad autopubblicare circa un romanzo all’anno, nessuno inferiore alle 500 pagine. Rende reperibili i suoi libri sugli store online, li pubblicizza sui profili social, ma è evidente che non basta, così, all’attività di scrittura, affianca quella di promozione dei suoi stessi libri. Ogni fine settimana, Evandro stipa di libri il baule della macchina e guida fino alla fiera in cui ha prenotato uno stand, nell’area riservata agli autori autopubblicati. Condivide lo spazio espositivo con scrittori che si presentano con uno, massimo due libri. Di solito sottili. Evandro invece distende ogni volta le membra di una saga che ormai ha superato i dieci volumi. Gli altri scrivono per passatempo, lui sembra in missione. Ovviamente, come mi ha confermato, si tratta di una vita economicamente insostenibile. Qualche copia riesce sempre a venderla, ma spesso il guadagno non copre nemmeno il costo dello stand o della benzina. Eppure, dopo ogni fiera, Evandro torna a casa e si rimette a scrivere.
La soluzione è sempre scrivere.
È stato mentre parlavo con lui che, finalmente, ho sentito il mistero prendere una forma secca, semplice: ma perché? Perché continuava? Perché non si era ancora arreso? La domanda Evandro se l’era posta più volte sul suo profilo Facebook: dopo avere annunciato nel 2012 «Ho smesso di essere ciò che ero e comincio a fare quello che sono», nel 2015 aveva scritto di non sapere perché continuasse, scrivere non gli dava neanche da vivere, sapeva solo che ogni giorno si svegliava e riprendeva da dove aveva interrotto il giorno prima; nel 2016 si era chiesto «Come può andare avanti il mondo senza conoscere le mie opere?»; e poi di nuovo: «Benissimo, direte voi. Ma non per me, che occupano l’intera mia vita e che le sto portando avanti tra una montagna di problemi»; e ancora: «Una sola domanda: perché lo faccio?»; e ancora: «Una sola risposta: non ci si arrende mai, mai e poi mai».
Sì, certo. Chiaro. Ma…quindi? Le dichiarazioni di Evandro Straccini formano un insieme coerente. Le sue parole hanno senso, filano e descrivono, almeno nella testa di chi le ha formulate, una spinta interiore insopprimibile. Ma da fuori suonano vaghe. Perché, dunque, si scrive anche se nessuno ci legge? Il desiderio di fama continua anche quando la fama è impossibile? Quello di Evandro Straccini non è un caso isolato. La storia di ogni arte è piena di persone come lui. Si può dire che per ogni artista riconosciuto dal mondo ce ne siano migliaia che rimangono per sempre nell’anonimato. Si tratta di megalomania? Dell’incapacità di guardarsi dall’esterno e avere consapevolezza del valore di quello che si è creato e dell’effetto che fa sugli altri? Ma in fondo queste domande non riguardano chiunque dedichi il suo tempo a scrivere, a dipingere o a suonare, senza avere la minima certezza del proprio valore come artista? Shakespeare sapeva di essere Shakespeare?
Ed Wood, che fu etichettato come il peggior regista di tutti i tempi, partoriva storie deliranti, spesso scritte e girate in pochi giorni, ma ne parlava con lo stesso trasporto amoroso che Orson Welles riservava a Quarto Potere, e di Welles bramava di rivivere la parabola artistica. In Evandro questa componente megalomane è sopita: ogni tanto ci scherza sopra, dice che scrive per vendere milioni di copie, ma in realtà, mi ha confessato, gli basterebbe una mano sulla spalla ogni tanto, qualcuno che gli dica «bravo».
Così ho cercato ancora. Il commesso farmacista di Guido Gozzano ha cominciato a scrivere poesie dopo la morte prematura della ragazza che doveva sposare.
«La dovevo sposare nell’aprile
nell’aprile morì di mal sottile»
confessa a Gozzano, a cui viene da ridere. Ovviamente immagina le rime nefande di quel poveretto, ma, subito dopo, si rende conto di avere di fronte una persona straziata. Il commesso farmacista gli racconta di aver rinunciato al vino, ai divertimenti e che ogni sera, stravolto dalla giornata di lavoro, rientra a casa a scrivere poesie per l’amata, che poi recita nel piccolo cimitero del paese, davanti alla tomba della sposa che non fu, dove gli pare che
«protetti dalle risa e dallo scherno
i versi del mio povero quaderno
mi parlino di lei, del suo mistero».
Il poeta non ride più. Gli sembra, anzi, che quel rozzo farmacista sia più vicino all’essenza della poesia di quanto lui lo sarà mai. Solo che il pudore impedisce al farmacista di recitare i suoi versi in pubblico, perché perderebbero di senso. Anche in questo caso ci sono differenze che sfuggono alle similitudini: Evandro è refrattario alle risa e allo scherno, e non scrive per sé. Ma per gli altri.
Così ho cercato ancora e ho scoperto che esiste un concetto, una specifica classificazione, per questo bisogno irrefrenabile di creare: l’outsider art, a sua volta derivato dall’art brut teorizzata nel 1945 dal pittore francese Jean Dubuffet per definire una pratica artistica spontanea, estranea a qualsiasi norma estetica convenzionale. Nel 1972 il concetto fu ampliato dal critico inglese Roger Cardinal, che con l’espressione “outsider art” abbandonò l’enfasi sugli stati di alterazione mentale per privilegiare la pratica autodidatta di coloro che operano al di fuori dei circuiti commerciali e culturali. Totali outsider, per l’appunto.
Alla base c’è una spontaneità che, spesso, come nel caso di Evandro Straccini, partorisce figli incontenibili. In the Realms of the Unreal di Henry Darger (1892-1973) è un poema epico illustrato di oltre 15 mila pagine in cui sette principesse sorelle, disegnate quasi sempre nude, con tratti anatomici femminili e maschili misti, capeggiano una guerra civile contro un regime torturatore di bambini. Fernando Nannetti (1927-1994), alias NOF4, Nanof, Nof, incise con la fibbia della sua cintura un graffito alto 20 centimetri e lungo 102 metri su una parete dell’ospedale psichiatrico in cui era ricoverato, dove raccontò la conquista di mondi sconosciuti e guerre combattute con armi ultra-tecnologiche. Adolf Wölfli (1864-1930), pedofilo, molestatore, schizofrenico, raccontò la sua vita in carcere ne La leggenda di sant’Adolfo, un’autobiografia di 25 mila pagine.
Opere tracimanti, infinite. E spontanee.
 
Nonostante le differenze fortissime, Darger, così come Wölfli, così come Nannetti, così come il poeta commesso farmacista, così come Ed Wood, così come Evandro sembrano tutti rispondere a un mandato interiore che impone di fare a dispetto delle circostanze. Sembrano rispondere, cioè, al mandato che riguarda chiunque si metta in testa di fare arte. Parlando del rapporto tra l’anima e Dio, Caterina da Siena scrive che l’anima è in Dio e Dio è nell’anima come il pesce è nel mare e il mare è nel pesce. Ecco, credo che al di fuori di ogni misticismo per queste persone valga un concetto simile: l’uomo è nell’opera e l’opera è nell’uomo. Per alcuni individui vita e creazione sono la stessa cosa. Ma se fare arte è un bisogno come nutrirsi o dormire, il valore di quello che si crea è ininfluente. A me sembra una cosa preziosa. Il perché lo sia, quello è un altro mistero.