La Lettura, 31 agosto 2024
Breve storia del pronto soccorso
Trarre fuori, rendere visibile. Questo significa il verbo latino promere, da cui promptus, all’origine dell’italiano pronto, un aggettivo spesso accostato al termine soccorso, derivato da soccorrere. L’etimologia del verbo (sub+curro) richiama l’azione del «correre sotto» a una persona per sollevarla, letteralmente oltre che metaforicamente. Quanto deve essere «pronto», il soccorso, per sostenere chi è in difficoltà e non diventare un affannarsi che poco ha a che fare con la corretta presa in carico della fragilità? La gestione del tempo è determinante, in questa prospettiva, e l’alfabeto dell’urgenza si articola intorno ai corpi che siamo: accelerazioni e pause, intermittenze e cadute. Il termine emergenza, poi, racchiude l’idea del «venir fuori», uscire dall’acqua, di un venire alla luce che dialoga con l’immagine della nascita.
Vita e morte s’intrecciano, nel tempo del soccorso e della cura. Questi prendono forma, dall’alba dell’umanità, nell’ambito della guerra: i campi di battaglia costituiscono lo spazio tristemente privilegiato per far fiorire la medicina. Già durante la guerra di Troia, i medici Podalirio e Macaone, figli del dio Asclepio, esercitano la techne prestando soccorso ai feriti. Ma una civiltà della cura aveva cominciato a prendere corpo — secondo l’affermazione attribuita all’antropologa Margaret Mead — nel momento in cui, almeno quindicimila anni fa, qualcuno aveva aiutato la guarigione di un femore rotto, facendo saldare la frattura (come indicava il callo osseo trovato sul reperto): una comunità che sa fermarsi per permettere a qualcuno di reintegrarsi in essa dà la prima lezione di civiltà.
In tutto il corso della storia, poi, lo sviluppo delle tecniche di soccorso ha avuto un’accelerazione in tempi di guerra: dal mondo greco-romano al secondo conflitto mondiale, al Vietnam, è stata l’accresciuta precisione delle armi a promuovere paradossalmente, insieme ai progressi della scienza medica, il risveglio di una sensibilità per il primo soccorso. Fu ancora un campo di battaglia il teatro della svolta della medicina di emergenza: all’indomani della battaglia di Solferino (1859), lo svizzero Henry Dunant, alla vista dei più di trentamila feriti trasportati a Castiglione delle Stiviere (Mantova), dove erano curati qualunque fosse il loro schieramento, ebbe l’idea di creare un corpo di volontari che assistesse tutti i feriti in battaglia senza distinzione di nazionalità. Nacque così la Croce Rossa a Ginevra e a Dunant fu assegnato il primo Nobel per la pace nel 1901. Il suo progetto trovò — a dire il vero — un terreno di coltura già predisposto. Un precedente fra tutti, l’opera di Florence Nightingale (personaggio che sarebbe ormai l’ora di liberare da quell’aura di signora perbene con la lanterna in mano), che durante la guerra di Crimea (1853-1856) teorizzò la cura sui campi di battaglia e fu la prima ad applicare il metodo scientifico della statistica all’osservazione dei feriti.
L’evoluzione delle tecniche di pronto soccorso ha portato, infine, al protocollo di classificazione delle emergenze per codice di colore (bianco, verde, giallo, rosso e oggi anche azzurro e arancione) che regola la tempistica di intervento. Il codice costituisce la base del triage (dal francese trier, scegliere, classificare), termine che indica la selezione della gravità delle ferite. La sua origine viene attribuita al barone Larrey, che durante le guerre napoleoniche mise a punto un processo di cernita dei soldati feriti, per poter evacuare il campo di battaglia.
Durante la Seconda guerra mondiale, poi, gli infermieri americani furono addestrati secondo un protocollo preciso a indicare la gravità dei feriti apponendo un bollino colorato sulla loro divisa. Il soccorso seguiva però una logica inversa a quella attuale: venivano recuperati prima i meno gravi, che avrebbero potuto salvarsi. Oggi alla capacità di discernimento deve unirsi l’adeguatezza dell’intervento, e l’abilità di cogliere il kairos, il momento per mettere in atto la cura richiesta dal corpo che si ha di fronte: è lui a fare appello al nostro sentire prima ancora che alle nostre competenze.
Che spazio dare oggi alla cura che, se almeno nel nostro Paese non è più quella dei feriti di guerra, si affaccia sulla soglia di altre non meno significative vulnerabilità? La domanda riguarda ancora una volta la nostra capacità di com-patire come «curatori feriti»: nel tempo del dolore personale e collettivo, la compassione consiste nella tenuta di uno sguardo, nell’arte di nutrire una relazione. Perché tanto il corpo che la mente ferita mantengono un’identità, un’unicità, appartengono ancora all’orizzonte del vivente, ce ne fanno scoprire forse il lato più segreto. E come il soccorso, sul campo di battaglia, fa saltare lo schema amico-nemico, quello sul campo del quotidiano ci costringe alla riflessione, ora lenta ora pronta, sull’esiguità della linea che separa malati e sani, colpiti e scampati. Perché il senso della malattia è nella ricerca del senso della vita, e regala un’esperienza conoscitiva senza pari, che è dentro e fuori dal tempo, apertura radicale all’imprevedibile. Facendo saltare gli schemi, ci provoca ad accettare di non comprendere una realtà per il solo fatto che le abbiamo assegnato un nome, come non possiamo dire di conoscere un testo solo perché ne sappiamo il titolo.
Di fronte al testo che la malattia rappresenta dovremmo sostare come lettori e interpreti attenti, che con nuovo e diverso senso della «prontezza» posano lo sguardo sul tempo della vita e del corpo, fatto di lentezza e accelerazione, istanti e durata, vulnerabilità e forza. Sognando che il codice dei colori si trasformi in un più variegato arcobaleno, ponte tra chi si prende cura e chi questa cura riceve, talora con diffidenza, spesso con fatica, altre volte con difficile gratitudine. La prontezza della cura sappia allora coniugare visibilità e discrezione, manifestazione e silenzio. E chissà che in questo sommesso miscuglio di intraprendenza e rispetto non si schiuda il miracolo tutto terreno di quel tocco delicato di cui ciascuno di noi ha bisogno per vivere.