Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  agosto 30 Venerdì calendario

Riparte online l’università di Gaza

«Siamo rimasti sorpresi quando l’università ha annunciato di volere riprendere le lezioni. Corsi online a Gaza? Non c’è quasi per nulla Internet, non c’è elettricità e non c’è un posto dignitoso in cui vivere». Haya al-Bayari, 24 anni, è una dei novantamila studenti che prima del 7 ottobre frequentavano gli atenei universitari della Striscia. Studia alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università islamica e, dopo dieci mesi senza lezioni, ha ricominciato a seguire i corsi online dall’inizio di luglio. All’appello mancano tanti compagni.
«Alcuni li abbiamo perduti per il conflitto, e per molti è impossibile studiare in queste condizioni. Meno della metà della vecchia classe si connette online» spiega la ragazza su WhatsApp. Originaria di Beit Hanun, nord di Gaza, ora vive in una scuola dell’Unrwa a Deir al-Balah. «È molto importante per me continuare a frequentare, non smetterò. Ogni giorno raggiungo un posto, molto distante, destinato agli studenti universitari, una stanza con tavoli, una connessione potente ed elettricità prodotta dall’energia solare. Spendo una cifra assurda per qualche ora di accesso stabile online. Prima della guerra un abbonamento domestico costava 60 shekel al mese (15 euro). Adesso pago 10 shekel per 60 minuti. L’ostacolo più grande però è che alloggiamo con altre due famiglie in una sola stanza. La gente vive nelle scuole dove gli studenti dovrebbero studiare».
Quando la guerra finirà, poche aule saranno rimaste utilizzabili. «In dieci mesi, oltre il 50% degli istituti scolastici usati come rifugi a Gaza è stato colpito direttamente», ha dichiarato l’Unicef il 10 agosto su X. Ancora più dettagliata la valutazione del Global Education Cluster (co-diretto da Unicef e Save the Children), che si basa su immagini satellitari di luglio: l’85% delle strutture scolastiche (477 su 564) è stato colpito. Di queste, 344 in maniera diretta (cioè il 61%) e 133 subendo danni parziali (23,6%). Si tratta di 264 scuole pubbliche, 156 dell’Unrwa e 57 private. Israele ha ripetutamente attaccato scuole e università sostenendo che vengono utilizzate da Hamas per scopi militari. Anche Mira al-Halabi ha ripreso a frequentare i suoi corsi a luglio. È studentessa di ingegneria informatica all’Università al-Azhar. «Ero al mio secondo anno quando è scoppiata la guerra. Dieci mesi senza studiare. Ora seguo online materie come programmazione e introduzione all’ingegneria del software». È sfollata nella zona di al-Mawasi, a Khan Yunis, «zona umanitaria» designata da Israele per i profughi, ma ugualmente bersagliata. «La situazione non è facile. Siamo in una stanza con altre venticinque persone» racconta in chat. «Poi c’è lo stato psicologico di cui soffriamo per l’insicurezza costante. Le condizioni cambiano ogni secondo».
Nel mezzo di lutti, bombardamenti, ordini di sfollamento e cibo carente, se studiare è una sfida, durissimo è anche riprendere a insegnare e a occuparsi dei propri studenti. Montaser al-Halabi è professore nella stessa università di Mira. Specializzato in Informatica, più di recente era passato alla formazione degli insegnanti. «In questo periodo dell’anno mandavo i miei studenti nelle diverse scuole per fare pratica di insegnamento», racconta.
Uno dei suoi progetti, “Teacher Education without Walls”, realizzato con l’Università di Helsinki, lo aveva portato in Finlandia un anno fa. Ora dorme in auto e va in un rifugio dentro un college affollatissimo ad al-Mawasi. «Mi sono trasferito quattro volte. Meglio della maggior parte dei gazawi, c’è chi ha dovuto spostarsi dieci volte», prosegue in chat. «Comunque sto bene, anche se sono depresso. Viviamo una situazione psicologica difficile, che è condizione comune, si presenta con crisi episodiche. Si sta bene, poi si crolla. La popolazione è arrabbiata, alcuni con Hamas, alcuni con il mondo, altri con Israele. O con il destino». Anche il suo ateneo da poco offre corsi online, ma lui non ha ancora ripreso. «È impegnativo con Internet ed elettricità limitate. E con il morale basso. Non ho corsi al momento e non mi sento in grado di insegnare». Dà una mano in alcune cucine da campo, quelle dell’Ong World Central Kitchen (che ha ripreso l’attività) e di altri donatori.
Nemmeno Reem Hamad, docente di inglese e traduttrice, è tornata alla sua cattedra, pur virtuale. «In questo periodo di agosto, in tempi normali, ricominciavano le scuole, mentre le università aprivano da metà settembre a inizio ottobre. Molti atenei hanno già avviato l’e-learning. So di uno studente ucciso da missili israeliani mentre andava in un Internet cafè per connettersi e sostenere un esame», racconta da Deir al-Balah. «Al momento non insegno. Ero nel settore privato, non so come tornare al mio lavoro». Sta progettando di trovare impiego da remoto per conto di Paesi esteri, ma nutre qualche dubbio sul fatto che sia opportuno insegnare online: «Forse sarebbero meglio che svolgessi mansioni scritte. Mi preoccupo per gli studenti, ho paura che mi succeda qualcosa di brutto mentre sono connessi con me. Oggi sono viva, non so cosa succederà domani».