Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  agosto 30 Venerdì calendario

Intervista a Gemello, rapper

Gemello – cioè Andrea Ambrogio, 40 anni, in concerto domani alla Città dell’Altra Economia, per Testaccio Estate – è un rapper di culto a Roma, casa sua. «Come Di Caprio è quello di Titanic, noi siamo quelli diDeadly combination», scherza. Dietro quel «noi» ci sono i collettivi Truceklan e In The Panchine, di cui faceva parte insieme tra gli altri a Noyz Narcos, e con cui ha segnato una stagione fondamentale dell’hip hop italiano di inizio anni duemila, con rime crude e feroci, prima di continuare da solista.Che ricordo ha di allora?
«Il rap era una lingua comune. Eravamo ragazzi di quartieri diversi, ci vedevamo per fare skate al Foro Italico e ci siamo “scelti” in base alle passioni. Tipo quella per i b-movie di Lucio Fulci, che tornava nella nostra scrittura. Specie nella mia: gli horror, gli immaginari selvaggi, il sangue».
Eravate dei «selvaggi» anche voi?
«Menomale che non c’erano i social (ride,ndr). Avevamo vite “non anorma”. E poi eravamo visti come pazzi. Il rap, che ascoltavamo dagli States, qui non c’era. Ci ridevano dietro: “Davvero volete fare rap?”».
Prospettive?
«Nessuna. Non c’era l’idea di fare soldi. Il Truceklan era underground. È stata una lunga gavetta. Non mi sarei mai aspettato che la gente, oggi, potesse ricordare i nostri pezzi. Né che il genere potesse avere il successo che ha».
Come l’ha vissuto?
«Va bene essere trattati come pionieri, anche se a me interessa soprattutto il presente. Spiace che oggi un underground non ci sia più: appena c’è qualcuno di bravo, le grandi etichette lo portano a giocare in Serie A; noi ci abbiamo messo tantissimo, a emergere».
Cosa vi lega alle nuove generazioni?
«Lo struggimento. L’hip hop è musica arrabbiata per definizione. All’epoca forse di più, ma descrive sempre un disagio. Ciascuno, nei suoi pezzi, racconta il proprio Vietnam, che siano le case popolari o il fatto che infamiglia nessuno prenda sul serio la voglia diventare un rapper».
Oggi cosa la stimola?
«Il rap è una sfida continua, in cerca della rima migliore, della metrica perfetta, per il gusto di competere. Con il tempo mi sono aperto ad altri riferimenti, anche più romantici, comunque meno feroci. All’epoca amavo solo i suoni cupi, truci. Oggi non solo, ma mantengo molto una scrittura fitta, cinematografica».
E poi è un pittore.
«Sì, sono laureato all’Accademia delle Belle Arti. Lì ci metto più mestiere. Ma i quadri sono simili allecanzoni: grandi casini, messi in ordine, tempeste. Ma anche qui, con il tempo, ho ripulito lo stile».
Tanti gruppi dell’epoca, dai Co’Sang ai Club Dogo, sono tornati insieme. Voi?
«Le nuove generazioni ce lo chiedono, Ma non avrebbe senso. Ciascuno ha la sua vita, i progetti, è cambiato. Il Truceklan era figlio del disagio. In parte, quel disagio è passato. E va bene così».