Corriere della Sera, 30 agosto 2024
Intervista a Angelina Jolie sul film Maria
Venezia - Sta cercando qualcosa che ha perso, il dono ricevuto e coltivato: la voce. «La musica ti avvolge in una tortura», dice Angelina Jolie in Maria. Prodotto da Fremantle, in sala il primo gennaio per 01, il film di Pablo Larraín (che chiude la trilogia femminile dopo Lady Diana e Jackie Kennedy) racconta l’ultima settimana di vita della più grande cantante lirica, spentasi nel 1977 a Parigi, a soli 54 anni. Alla Mostra viene accolto alla proiezione stampa da un applauso fragoroso, tanto che nel pomeriggio le pronosticano l’Oscar. Prima, in un incontro, le diciamo che questo film «suona» come una sua rivincita personale, dopo alcuni film usciti malconci, così come la sua vita, col fardello del divorzio doloroso da Brad Pitt, che al Lido sbarca domenica.
Angelina, cosa l’accomuna a Maria Callas?
«Ho pensato ai miei figli durante le riprese. Senza di loro, difficilmente avrei raggiunto equilibrio e armonia. Ci sono cose che non dirò. Però quello che mi sento di condividere con lei è, sorprendentemente, la parte più morbida di me, la vulnerabilità».
Mai ascoltata in disco?
«La mia formazione è più punk, sono cresciuta con i Clash. Ma quando una vita è così piena di dolore, disperazione e amore, si crea nella musica un sentimento che incapsula ogni elemento, ed è una cosa unica. Ho imparato molto dalla voce di Maria Callas, ora l’ascolto spesso».
L’ambiente dell’opera può essere terribile. Teme i «vedovi» della Callas?
Si porta la mano sul petto: «Sento la responsabilità. La mia più grande paura sarebbe deludere coloro che l’hanno sempre amata, il suo retaggio, la sua memoria. Come Pavarotti, ha cercato di portare l’opera a tutti e non solo alle élite. All’inizio ero molto nervosa, tremavo. Pablo è esigente e continuavo a chiedergli: ma è un musical? Ho studiato canto per sette mesi, ho provato in una piccola stanza, i miei figli ne bloccavano le porte, e poi alla Scala. Ho cantato davanti a centinaia di persone. Ma nel film la voce è soprattutto quella di Maria. Si trattava di creare la perfetta sincronia tra immagini e suono. Imparare a cantare è stata una sorta di terapia, emotiva prima che tecnica, per capire chi era davvero Maria».
E chi era Maria?
«Non è mai stata una vittima. Era umile e sofisticata, in scena cercava la perfezione. La sua vita è una summa delle eroine tragiche che portava in scena. Le ha fatte sue, incarnate. È morta in solitudine, accompagnata dalla crudeltà dei critici, senza sapere se sarebbe stata amata. La sua famiglia diventarono il maggiordomo (Pierfrancesco Favino) e la domestica (Alba Rohrwacher) che, devoti, abdicarono alla loro vita. Erano i suoi angeli custodi. Con Maria giocavano a carte nella sua casa di Parigi, che abbiamo ricostruito a Budapest».
Ma è vero che bruciò i suoi costumi di scena?
«Questo l’ha pensato il regista. Fino all’ultimo ha tentato di tornare a cantare. Era arrabbiata, amareggiata. La voce l’aveva abbandonata e il medico la sconsigliò. Nella sua testa c’era solo il palco, null’altro. Il film non è dark, è una favola, una celebrazione della sua vita».
C’è Onassis.
«Con i flashback e l’artificio di una intervista-ritratto raccontiamo un bel pezzo di vita. Lui è il grande amore della sua vita. La famosa crociera sul Christina, dove germogliò la passione, l’abbiamo girata proprio su quello yacht. All’affascinante sfrontato armatore suo conterraneo, disse che non sarebbe diventata un oggetto da mettere in vetrina, il suo nuovo trofeo, invece...».
Ha visto gli altri film e spettacoli sulla Callas?
«l film di Zeffirelli con Fanny Ardant, Monica Bellucci a teatro? No, ho cercato di farmi sopraffare dalla bellezza delle opere (Anna Bolena è la mia preferita), e non da un eccesso di informazioni che mi avrebbe condizionata. Ho visto però le sue lezioni di canto».
Cosa le lascia questo film?
«Ho avuto bisogno di restare a casa con la mia famiglia. Maria era come una sacerdotessa del canto che officiava: la dedizione, il sacrificio. Ho un nuovo rapporto con la parola diva. Non potrebbe esistere se non ci fosse un’eccellenza in ciò che si fa. Ho sviluppato un senso di gratitudine per essere un’artista».