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 2024  agosto 30 Venerdì calendario

Recensione di Maria, di Pablo Larraín

Dopo il passo falso di El Conde, Pablo Larraín torna ai temi che gli sono più cari, quei ritratti femminili che vedono la protagonista alle prese con un destino che finisce per schiacciarla. Ieri Jackie Kennedy e Diana Spencer, oggi Maria Callas. E come nei due film precedenti circoscrive Maria (sceneggiata da Steven Knight) in un breve arco di tempo, qui l’ultima settimana di vita del soprano. Ad allargare lo sguardo ci pensa il peso dei ricordi – la madre che «vendeva» lei e la sorella ai nazisti che occupavano la Grecia, l’amore mai dimenticato per Onassis (Haluk Bilginer) – e le arie che l’hanno resa celebre. Momenti che non sono puri e semplici ricordi (ambientati nei teatri di tutto il mondo, Scala compresa) ma un tramite per scavare nei nodi di un’esistenza che sente sfuggirle. Tra ansiolitici ed eccitanti, la fantasia si mescola agli incubi, le note della Medea a quelle della Carmen, della Wally a quelle di Butterfly fino a quel «Vissi d’arte» della Tosca che è il suo lascito al mondo prima di spegnersi. E Angelina Jolie? Dalle primissime scene, dove canta l’«Ave Maria» dall’Otello di Verdi, smetti di pensare a quello che ti chiedevi prima di vedere il film (ce la farà?) e ti fai prendere dalla sua straordinaria prova, non mimetica eppure assolutamente convincente. E non solo perché tutti i brani sono cantati anche da lei (a volte coperti dalla voce della Callas, altre solo intervallati: vedi le prove col pianista) ma perché usando veramente la voce sa rendere credibile lo sforzo del canto. In questo modo non ha bisogno dei nasi finti o trucchi prostetici (come il Bernstein di Maestro) perché affida all’intensità dello sguardo e alla verità dell’ugola la forza dell’interpretazione. Ne esce così il ritratto di una donna che ha vissuto solo per il belcanto e che finisce per confondere la realtà con i ricordi (emozionante la scena in cui si immagina che sulla spianata del Trocadero, i turisti diventino il coro che l’accompagna), alla disperata ricerca di lenire le ferite che si porta dentro.