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 2024  agosto 29 Giovedì calendario

Nel nostro risentimento la caduta dell’Occidente

Fu tutta colpa dell’amore, forse. E di una fotografia maliziosa. Friedrich Nietzsche vide per la prima volta Lou von Salomé nell’aprile del 1882, nella basilica di San Pietro, dove il suo amico Paul Rée aveva trovato un cantuccio ben illuminato in cui sedersi con il taccuino sulle ginocchia. «Da quali stelle siamo caduti per incontrarci qui?» furono le prime parole del filosofo, galante e sfrontato. Un esordio scenografico, non c’è che dire. Nietzsche alternava feroci emicranie a stati di euforia. E ora i folti baffi scuri nascondevano un tenue sorriso. Gli occhi accesi e commoventi, un pozzo di solitudine.
Rée lo aveva pregato per lettera di raggiungerlo a Roma. Gli aveva parlato con toni entusiastici della incantevole russa, giovane e intelligente: una discepola ideale. L’aveva conosciuta nel salotto di Malwida von Meysenburg, in via della Polveriera, dove troneggiava il busto di Wagner tra petali di anemoni. «Sono avido di anime del genere», gli aveva risposto Nietzsche, e si era messo in viaggio. Ma nel frattempo, complici le passeggiate romane al chiaro di luna, lo stesso Rée era stato fatalmente sedotto da Lou, se ne era innamorato. Gli uomini cadevano ai piedi di quella donna di poco più di vent’anni dal corpo sottile, vestita elegantemente di nero, venuta in Europa per un viaggio d’istruzione. «Lou è acuta come un’aquila e coraggiosa come un leone, però è anche una bambina, molto femminile», confida Nietzsche a un amico. È rimasto un mistero se si baciarono passeggiando nel boschetto del Sacro Monte, accompagnati dal canto degli usignoli, durante una gita al lago d’Orta e sull’isola di San Giulio. «Il più affascinante sogno della mia vita»: così Nietzsche ricorderà quel momento. Goffo e precipitoso, le sottopone due volte la proposta di matrimonio. La fanciulla rifiuta, è ovvio. Non vuole sacrificare l’amicizia: il suo piano è di passare un periodo di studio a Parigi tutti e tre insieme, dormendo ciascuno nella propria camera. Una celebre fotografia, scattata nello studio di Jules Bonnet a Lucerna, in Svizzera, consacra lo stravagante ménage à trois. Lou tiene in mano un frustino intrecciato di lillà; i due uomini, impettiti e imbambolati, sono legati a un carretto, le redini saldamente nelle mani della donna. Scoppia lo scandalo. La madre di Nietzsche, Franziska, si intromette: il defunto padre del filosofo, pastore luterano, si starà rivoltando nella tomba. La sorella Elisabeth, perfida e meschina, detesta quella donna indipendente e spregiudicata, frivola e civettuola, disponibile al corteggiamento e circondata dai pettegolezzi. È irremovibile: «Ho detto addio a Fritz fino a che resterà sotto l’influsso di questa russa, mi si spezza il cuore al vedere quant’è cambiato, da nobile com’era prima! Contorto, miserevole e servile in sua presenza, da non riconoscerlo. Lui è follemente infatuato di lei».
Alla fine dell’anno, la storia con la «mente sorella» è già finita. Grande disillusione, grande tormento. Nietzsche rompe i rapporti con i due componenti del trio, Lou e Rée, che si erano ricongiunti a Berlino. Inevitabile il commiato: «Le passioni mi divorano. Un’orribile delusione, un’orribile sensazione di orgoglio ferito. Questa sera prenderò tanto oppio da perdere la ragione». Accecato dal rancore, si sfoga con un suo corrispondente, maledicendo Lou: «Quella scimmia rinsecchita, sporca e puzzolente, coi suoi seni finti». E riempie di crudeli recriminazioni un biglietto a lei indirizzato, ma mai spedito. L’accusa di essere «povera di gratitudine». Le parole non sono scelte a caso: «Lei è leale? È incapace di tradire?».
È un supplizio. Ma Nietzsche non trovò conforto in una canna di rivoltella, come aveva minacciato. Si gettò invece nel lavoro. Col cuore straziato, scrisse la prima parte dello Zarathustra.
E quando nel 1887 Lou sposò lo studioso di lingue orientali Friedrich Carl Andreas, che si era piantato un coltello nel petto per lei, il filosofo era pronto a pubblicare Genealogia della morale. È qui che compare per la prima volta il ressentiment (in francese) come morale degli umiliati e dei vinti. «Per un anno intero sono stato istigato a nutrire sentimenti che ho rifiutato con tutte le mie forze, sentimenti di vendetta e ressentiment», aveva confessato in una lettera tempo prima. All’inizio, dunque, Nietzsche lotta con sé stesso per scongiurare il pericolo che il rancore finisca per insidiare il suo atteggiamento verso la vita. Ma poi il risentimento diventa la chiave per comprendere i fenomeni storici e sociali della decadenza occidentale.
Anche l’identità di una società si costruisce su grandi narrazioni, indispensabili cornici di senso. Sono costitutive dell’immaginario collettivo. Non possiamo farne a meno, perché sono il pane immateriale di cui lo spirito si nutre. Ma c’è il rischio che diventino una trappola, se vengono smentite dalla dura realtà e tradiscono le aspettative che esse stesse hanno generato. Ecco il sospetto di inganno e di ingratitudine di cui parlava Nietzsche. La sensazione di aver subito un torto o di non vedersi riconosciuto un merito. La convinzione di aver dato più di quanto si è ricevuto indietro. E dunque la sequela di umiliazione, impotenza, sete di giustizia, quindi l’individuazione di un colpevole, un nemico (che sia l’establishment, la globalizzazione, le élite politiche, gli stranieri o altro ancora) su cui scaricare la smania di vendetta.
Non c’è dubbio che l’attuale fase storica sia immersa nella disillusione suscitata dal naufragio delle grandi narrazioni che hanno costituito l’impalcatura della nostra epoca. Basta citarne un paio. Speravamo di trovare una nuova patria in una Europa unita, senza più frontiere. E ci siamo ritrovati a puntare il dito contro l’Europa matrigna dell’austerity e l’Europa nemica di Bruxelles, che non ha saputo affrontare le due principali sfide del nostro tempo: il rallentamento strutturale della crescita economica e la gestione dei flussi migratori internazionali. La Brexit ha mostrato traumaticamente l’inversione di un processo che ritenevamo irreversibile, interrompendo la progressiva integrazione economica, politica e culturale del continente. «L’Europa può morire», ha detto qualche tempo fa il presidente francese Macron in un solenne discorso alla Sorbona. Avevamo creduto, inoltre, che la globalizzazione fosse una ricca tavola imbandita a cui chiunque si sarebbe potuto accomodare, e che avrebbe dispensato vantaggi e benefici per tutti gli invitati al ghiotto banchetto. Ma poi abbiamo capito che c’è chi è rimasto indietro e ha cominciato a trincerarsi dietro nuovi muri, barriere e fili spinati. Sotto i colpi inferti ai ceti popolari e alle classi medie lavoratrici, alle diverse latitudini europee si è scoperchiato il vaso di Pandora del sovranismo e del populismo. Dopo la mano aperta – le frontiere porose, permeabili ai flussi globali – ecco il pugno chiuso. Ma basteranno dazi e politiche protezionistiche, l’esclusione dei nuovi «nemici» dal perimetro delle catene del valore, a smorzare la morale del risentimento? Già Nietzsche, formidabile indagatore di anime, aveva capito che il rancore si accresce idealizzando un mondo esterno antagonista. Ma che non porterà mai all’appagamento del nostro legittimo desiderio di riconoscimento.