Linkiesta, 28 agosto 2024
Venditti, la ragazza disabile e la capacità di fottersene di voler essere a tutti i costi cool
Quando morì Milan Kundera, scrissi per un mensile una dissertazione non su Milan Kundera ma, come sovente mi accade, su di me. E sulla differenza generazionale di approdo al consumo di Kundera, che negli anni Ottanta per i grandi era passata da “Quelli della notte”, e per i piccoli da quella canzone che diceva «non leggi neanche La Repubblica, non ti solleva Milan Kundera».
Una persona con cui lavoro, il giorno in cui uscì quel giornale, mi telefonò preoccupata come mai mi era parsa di fronte all’autobiografismo più o meno d’invenzione: ma è vero quel che hai scritto? Ma questa scena dello stadio di Avezzano che squarciagola «Milan Kundera, Milan Kundera» è successa veramente?
Quel che mi stava chiedendo era: hai davvero avuto un’adolescenza di tale impresentabilità culturale da andare ai concerti di Venditti? Era una domanda che aveva un senso, perché mai come a sedici anni ci tieni alla presentabilità, ad avere i consumi giusti, a essere cool. “Almost famous” è un film stupendo, ma la ragione per cui i miei coetanei ne vanno pazzi è che Lester Bangs che dice «I’m uncool» arrivava al momento perfetto: avevo ventott’anni, e quello era il futuro, era quella cosa che capivi solo quando diventavi grande, era la preziosità del fottersene d’essere cool.
Naturalmente, essendo Lester Bangs interpretato da Philip Seymour Hoffman, uno dei più giganteschi attori di cui abbiamo avuto la fortuna d’esser coevi, c’era il piano doppio: il più cool di tutti che vezzosamente si dice uncool, quella sì che è una combinazione irresistibile.
Tre anni prima, Rai3 aveva mandato in onda il viaggio tra Milano e Roma di Serena Dandini e Julio Velasco, in cui ognuno era sé stesso: lei rideva istericamente, lui diceva solo cose stupendissime con saputa mollezza. A un certo punto in autostrada appariva l’uscita Sasso Marconi, e lui diceva: c’era quella canzone di Venditti. Fu lì che tutte, Dandini in macchina e noi a casa, c’innamorammo. Partirono in due, ed erano abbastanza, specie se uno dei due era il quarantacinquenne Velasco, così cool da potersi permettere la citazione di “Bomba o non bomba”.
Tra i miei sedici e i miei attuali cento anni, è discesa su di me senza che la meritassi quella qualità con cui Velasco e Seymour Hoffman erano probabilmente nati: il fottersene abbastanza della coolness da trovare più divertente l’uncoolness. Antonello Venditti ha continuato costantemente a essere il più tamarro su piazza, e io ho iniziato a trovare questo suo tratto adorabile.
Sei anni fa Luca Sofri raccontò un concerto all’Arena di Verona per il quarantennale di “Sotto il segno dei Pesci”. È la cronaca di uno che non possiamo pensare non sappia stare sul palco (non fa altro da mezzo secolo), e allora si desume dalla quantità di dettagliati deliri che sia semplicemente uno troppo caratteriale per curarsi d’essere sul palco. Nel secolo più scioccamente affezionato al concetto di reputazione, uno che borbotti noncurante della telegenia mentre è su un palcoscenico davanti a chissà quanti telefoni accesi, uno così è uno che mi sta simpatico.
Di recente mi hanno raccontato un concerto a Cattolica che mi ha fatto pensare «ma io devo andare a vederlo», con lui che parla interi quarti d’ora tra una canzone e l’altra, la gente che urla «Canta!», e lui che monologa vieppiù dicendo che solo i fascisti vogliono che si eseguano gli ordini e quindi che lui canti e non parli.
Finché c’è stato lo scandale du jour di questa settimana. A Barletta, Venditti sta strologando un aneddoto su Melegnano (nientemeno), sente dei versi dalla platea, fa il verso ai versi, dice «Vieni qua se c’hai il coraggio», e poi succede una cosa che per Venditti diventa un linciaggio e per studiosi del presente un’illuminazione.
La cosa che accade è che a Venditti fanno presente che i versi dalla platea non vengono da qualcuno che vuole disturbarlo, ma da qualcuno con un ritardo mentale. Quello risponde malamente, e ne segue il disastro comunicativo che potete immaginare.
Il fatto illuminante è che chi vuole salvare Venditti dall’imbarazzo in cui si sta infilando non gli dice «la ragazza che mugugna è ritardata», non gli dice «ha dei problemi», non gli dice neanche qualche versione diplomatica delle parole con cui avremmo risolto quella situazione anni fa, non so: «È disabile».
Chi tenta di salvarlo lo fa coi codici postmodernisti, ma Venditti è nato nel 1949: quando gli dicono «è speciale», lui non lo decodifica in «siamo nel secolo in cui fingiamo che gli handicap siano vantaggi, perché la finzione lessicale costa meno che costruire le rampe d’accesso ai palazzi». Gli dicono che dev’essere comprensivo perché la ragazza è «speciale», e lui risponde «eh, ho capito, è un ragazzo speciale che però deve impara’ l’educazione: non esistono ragazzi speciali». Non era speciale e non era un ragazzo, era una Cinzia che è persino possibile si chiami così in omaggio a “Piero e Cinzia”, una canzone di quarant’anni fa, cioè di quando «pensi d’essere speciale» lo dicevamo a chi si dava un tono, mica ai disagiati.
Il giorno dopo, mentre i moralisti un tanto al chilo linciano lietamente il capro espiatorio del giorno, il capro Antonello compare in una impietosa ripresa telefonica, spiega che pensava fosse «una semplice contestazione politica, alla quale io sono abituato, quindi ho risposto in maniera molto violenta», dice «non sono un mostro», dice «ho sbagliato», dice che ha dato i pass per il backstage ai genitori di Cinzia e alla ragazza, che è sconvolto.
Non sa, tapino, che scusarsi è inutile, ti diranno che fai comunque schifo e che le tue scuse sono insufficienti e tardive. Non sa che niente basta mai, nell’epoca delle relazioni parasociali, in cui tutti hanno una telecamera sul telefono e qualunque tuo inciampo verrà ripreso e amplificato e considerato imperdonabile, tutti ti filmano e ti costringono a contrirti perché tutti sono convinti tu debba loro qualcosa.
Che tu abbia cinquant’anni di repertorio o sia un qualunque cretino che accende la telecamera del telefono per farci vedere le vacanze, è uguale: noi siamo gli artefici del tuo successo, epperciò ci devi attenzione, devi attenerti ai nostri standard, devi dipendere dalle nostre grida che se non stai attento scelgono Barabba e poi sono cazzi.
Come glielo spieghi, tutto questo, a uno che è stato adolescente quando le chiamate interurbane passavano dal centralino e le vacanze altrui le vedevi da una cartolina illustrata? E, soprattutto, lui è tenuto a capirlo? A un certo punto, se vivi abbastanza a lungo, ti ritrovi ad abitare un mondo che non è più il tuo: sarebbe sciocco pretendere reciprocamente di capirsi.
Antonello Venditti fa concerti da quando agli spettatori era vietato portarsi dietro la macchina fotografica (c’era scritto sui biglietti, credo ci sia ancora scritto: d’altra parte in fondo ai libri c’è ancora scritto che è vietato fotocopiarli): perché dovrebbe essere abituato a fare attenzione alle nostre perpetue telecamere da citizen journalist e altre illusioni da giustizieri?
Il mondo si è ribaltato molte volte davanti ai suoi occhiali fumé, e lo scandalo di Cinzia passerà in tre quarti d’ora (l’economia dell’attenzione esiste, e noi abbiamo già un nuovo inciampo di qualche famoso che siamo convinti di conoscere cui dare retta), e al tempo stesso durerà per sempre, perché per le immagini in movimento non si va più al cinematografo e abbiamo tutti un archivio in tasca.
Foss’in lui, me ne fotterei. E, al primo che cerca di spiegarmi che ho il dovere di sapere cosa significhi «ragazza speciale», il dovere dell’empatia, il dovere dell’inclusività, il dovere della neolingua, risponderei: manca l’analisi, e poi non ho l’elmetto.