La Stampa, 28 agosto 2024
Monsignor Vincenzo Paglia dice che in alcuni casi è lecito staccare la spina
«Senza una legge sul fine vita andiamo incontro a una situazione pericolosamente disarticolata, in una materia delicatissima». Lo sostiene monsignor Vincenzo Paglia, che ha appena pubblicato Destinati alla vita (San Paolo edizioni, in uscita venerdì). Il presidente della Pontificia accademia per la vita ha guidato la commissione ministeriale che ha dato vita alla legge 33/2024 che ha riformato l’assistenza per le persone anziane.Lei è fortemente impegnato sul tema della terza età: quali sono i suoi obiettivi?«Ricorda le decine e decine di migliaia di anziani morti per il Covid? Per loro non c’era più posto neppure nei cimiteri. Di qui l’impegno a realizzare una nuova legge che il governo ha accolto e il Parlamento approvato. Quale il focus della legge? La società nelle sue diverse articolazioni deve prendersi cura di tutti i suoi anziani, assistendoli a casa. Siamo, oggi, 14 milioni. E cresceremo di numero e di età».Ma non è una legge scritta sulla carta senza finanziamenti?«Mi auguro che dopo avere approvato la legge, senza nessun voto contrario, il governo non commetta la sciocchezza di non trovare neppure un minimo di finanziamenti. Basterebbero per l’assistenza domiciliare 250 milioni. Sono sufficienti per avviare la sperimentazione. È una riforma che cambia il volto del Paese».Lei, nel volume, parla di vocazione degli anziani. È una contraddizione con la cultura che li pensa come pesi da scartare.«Che amarezza la cultura dello scarto. La conosco bene. Con gli amici di Sant’Egidio sono decenni che stiamo combattendo contro questa forma di inciviltà. Oggi questa battaglia è possibile vincerla. Ma c’è una cosa che vorrei sottolineare e che c’entra poco con la legge. È però nel cuore della vecchiaia. Noi vecchi dobbiamo vivere e testimoniare al mondo che la nostra prossima tappa, la morte, non è la fine, è la nascita per l’eternità».In che senso la morte è un passaggio?«Lo diceva già Seneca. È contro la ragione pensare che la morte sia la fine. È irragionevole sostenere l’affermazione di Sartre: “Noi siamo una parentesi tra due nulla”. Se così fosse che ne sarebbe di tutte le cose belle che abbiamo realizzato, degli affetti… Insomma tutto questo è nulla? Le cose belle sono eterne».Nel volume lei ricorda le due ultime righe del Credo: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».«Sì, e nessuno sa bene cosa vogliono dire. A me pare che nessuno “aspetti”, anzi mi lasci dire che non è esaltante quella frase che molti credenti dicono: “Sì, il Paradiso, ma il più tardi possibile…!”. Intendiamoci, la capisco perfettamente, ma è un po’ triste. La risurrezione della carne fa parte della nostra destinazione, della pienezza della vita. Eppure non se ne parla mai. E molti pensano che finiremo tutti in “energia”. Che “goduria”, mi verrebbe da dire! Risurrezione della carne vuol dire che non saremo puri spiriti – non risorge la nostra anima, risorgiamo noi con la nostra storia, i nostri affetti, le nostre relazioni… Insomma, nell’Oltre con Dio saremo pienamente umani, proprio perché risorti, come Gesù risorto che preparò ai discepoli anche la colazione sulla riva del lago».Ma com’è il corpo risorto?«Non lo sappiamo! Saremo noi comunque. E sul “come” lasciamoci anche qualche sorpresa finale. Una cosa è certa, secondo le Scritture, non sappiamo come, ma ci riconosceremo, ci abbracceremo, e ci sarà una grande festa, piena di vita. Gesù parla del Paradiso come di un grande banchetto. È la speranza per il mondo. Se siamo tutti destinati al “banchetto di festa” perché continuiamo a farci la guerra? Nel libro c’è un paragrafo: Il meglio deve ancora venire. È la speranza che vorrei suggerire a tutti noi anziani».Il Piccolo lessico del fine vita che ha pubblicato la Pontificia accademia per la vita quale obiettivo ha? Contiene aperture oppure no?«Il testo conferma il “no” netto sia all’eutanasia sia al suicidio assistito. Ma vogliamo inserire una sottolineatura di metodo ecclesiale che fa la differenza rispetto ad alcune posizioni che non hanno tenuto conto delle modulazioni del magistero in materia di morale. Il Lessico, in particolare, vuole superare la strategia intransigente dei cosiddetti “valori non negoziabili”, che presta il fianco a una sorta di integralismo bioetico. E, nel contempo, riafferma il no all’accanimento terapeutico. In alcuni casi, quindi non sempre – lo hanno detto anche i Papi – possono essere staccati i cosiddetti trattamenti di supporto vitale. È urgente proporre un nuovo stile ecclesiale».Che ne dice di coloro che combattono il Piccolo lessico affermando che la vita è indisponibile?«Dire che la vita è indisponibile va spiegato. Altrimenti rischiamo di svuotare il senso del dono. Certo che è un dono di Dio che comunque lo fa attraverso la madre e il padre. E il Signore ci fa questo dono per spenderlo per gli altri. A mio avviso è molto più efficace sostenere che la vita è mia, ma non solo mia. E che il dono ricevuto è perché sia speso per gli altri. La vita mi è data e non è solo mia, ma anche degli altri. È qui la battaglia da fare di fronte alla “autonomia assoluta”. Sì, la mia vita non è solo mia. L’ombelico me lo ricorda. Nessuno è auto-nato. E così pure nessuno deve morire nella solitudine».Qual è lo spazio per la ricerca di mediazioni sul piano legislativo?«La comunità cristiana non è chiamata a fare le leggi, ma a formare le coscienze. E quindi anche il compito di impegnarsi per stabilire un rapporto con la cultura teso al bene comune, non a far pesare i suoi numeri secondo la logica della lobby. C’è bisogno di un dialogo virtuoso che aiuti l’intera società. È quel che Papa Francesco suggerisce nell’enciclica Fratelli tutti: “La ricerca di una falsa tolleranza deve cedere il passo al realismo dialogante, di chi crede di dover essere fedele ai propri principi, riconoscendo tuttavia che anche l’altro ha il diritto di provare ad essere fedele ai suoi. È il vero riconoscimento dell’altro, che solo l’amore rende possibile e che significa mettersi al posto dell’altro per scoprire che cosa c’è di autentico, o almeno di comprensibile, tra le sue motivazioni e i suoi interessi"».In Italia serve una legge? Si riuscirà finalmente a trovare un’intesa?«Mi permetto di dire che senza le regole andiamo incontro ad una situazione pericolosamente disarticolata. Per di più in una materia delicatissima. Mi lasci comunque dire una cosa. Il vero problema, a mio avviso, non è “legge sì” o “legge no”, i responsabili trovino una regola. Ovviamente me lo auguro. Quel che a me preoccupa ben di più della legge è l’abbandono dei malati terminali, la mancanza di accompagnamento. È davvero urgente una rivoluzione culturale che favorisca la prossimità ai malati: stare loro accanto, anche solo tenendoli per mano».