la Repubblica, 28 agosto 2024
In Australia il diritto alla disconnessione è legge
Chiama pure, tanto io non ti rispondo. Insisti, quanto vuoi, ma ti ignoro. Da oggi in Australia è legge: al di fuori dell’orario di lavoro, si è autorizzati a non rispondere al cellulare se a chiamarti è un collega o il capoufficio.
L’hanno già ribattezzato “diritto alla disconnessione”, riconosciuto negli ultimi anni a più latitudini, e si può dire che segni l’inizio di un epilogo, se non la chiusura definitiva di un’epoca, quella che potremmo definire “della reperibilità”, destinata a modificare drasticamente il perimetro del lavoro e della vita personale. Si dice che molta della confusione emotiva in cui ci dibattiamo prenda forma dalla commistione fra la dimensione produttiva e quella affettiva, e dunque dall’estensione smisurata della prima sulla seconda, soprattutto per quelle professioni in cui non sussiste il rito minimamente delimitante del badge o del vetusto fantozziano cartellino.
Ma quando era iniziata l’epoca del 24/24h? Riavvolgiamo il nastro. Mezzo secolo fa, alla metà degli anni Settanta, già si percepivano i vagiti della tecnologia cellulare, ancora riservata a nababbi e a plutocrati, le cui guerre da lupi dell’alta finanza già reclamavano una Santa Barbara di cercapersone e di telefoni mobili sulla limousine, alimentati da batterie pesanti come mattoni e collegati a antenne mastodontiche degne del radiotelescopio di Arecibo. Incredibilmente, esisteva dunque al mondo una genìa di semidèi che poteva telefonare dall’abitacolo o addirittura a piede libero, mentre i comuni mortali facevano la fila fuori dalle cabine Sip e perfino gli eroi di Matrix erano costretti a correre come forsennati alla cornetta di un telefono pubblico per riconfigurarsi sulla nave di Morpheus. Sarà anche stato un fenomeno elitario, un vanto pressoché solo d’immagine (la qualità del segnale era pessima oltre che in molti casi assente), ma eravamo agli albori di una trasformazione che si sarebbe rivelata rapidissima, portando l’Occidente ad affiancare alle armi di distruzione di massa quelle di comunicazione di massa, dall’impatto non meno devastante.
Tant’è, negli anni ’80 il primo cellulare propriamente detto aveva già visto la luce in Giappone, e con apposita tracolla consentiva chiamate in movimento a iper-professionisti assetati d’ubiquità, il cui esempio tuttavia si rivelò contagioso spingendo Nokia e Motorola a investire ogni risorsa nella miniera d’oro del “mobile phone”.
Ed eccoci al boom: alla metà degli anni ’90 il trillo del cellulare è diventato la soundtrack urbana del pianeta, e termini come GSM, 2G, SMS sono entrati nel lessico d’uso comune. È lì che, impercettibilmente, complice il crollo del prezzo della connessione e degli apparecchi stessi, si colloca il passaggio dall’ambito originariamente professionale a quello relazionale senza limiti, riconfigurando il cellulare come strumento talmente essenziale da riscoprirsi identitario, nucleo vitale dell’individuo multitasking di fine ‘900 che ora accede al terzo millennio salutando l’homo sapiens e rinascendo homo connexus, armato di un terminale che è veicolo e sede unica di tutto, dalle riunioni lavorative alle emergenze familiari, dagli scontri coi colleghi alle confidenze fra amici, dagli auguri di Natale alle trattative immobiliari, e ancora effusioni, liti, briefing, diverbi e nei giorni drammatici del Covid perfino estremi commiati.
Abbiamo celebrato insomma, in pochi anni, l’apoteosi della comunicazione cellulare, assurta a liturgia necessaria e vitale, plenipotenziata, da cui solo adesso, con la decisione australiana, cominciamo forse a regredire con un minimo di paletti. Perché in effetti l’originaria ebbrezza di quella “libertà di comunicare” si era mano a mano contratta in un ansiogeno dovere di rispondere, sempre e comunque, come in un immenso call center che non conosce requie se non quella del blackout. Come il Bartleby di Melville cominceremo a dire che «ho preferenza di non risponderti»? Dopo il diritto di interpellare, fonderemo il diritto di non replicare?
In realtà la Generazione Z ha già azzerato da tempo la logorrea mobile tanto cara ai loro genitori, se è vero il sondaggio pubblicato mesi fa dal The Times secondo il quale una larghissima fetta di under 35 evita categoricamente di rispondere alle chiamate, riversandosi solo sulla messaggistica. Ma non sono solo loro. Perché in fondo così come Efesto, dio della tecnica, teneva le redini di tutto l’Olimpo, così la tecnica si è impadronita di ogni umana funzione, convincendoci di poter affidare agli smartphone il supremo incarico di conservare la nostra memoria, cristallizzata in un archivio bulimico di selfie e di scatti compulsivi.
Temo che in ciò si sia delineato un ulteriore cerchio, quello che ha preteso di assoggettare al controllo del supporto non solo la nostra memoria fotografica e iconografica, ma altresì quella di ogni scambio verbale e dialogico, motivo per cui abbiamo lentamente iniziato a rifiutare le conversazioni telefoniche a favore di scambi scritti, magari su whatsapp, alternati ai fatidici vocali, come cantavano i Thegiornalisti. Una versione 2.0 di verba volant, scripta manent, laddove ci illudiamo di sigillare a futura consultabilità tutto quello che abbiamo detto o sussurrato o dichiarato, in qualunque sede e con qualunque interlocutore. Vale per la Generazione Z e vale per noi, come pretesa di edificare in un software il nostro monumentum, continuamente visitabile sullo screen. Davvero un potere immenso, quello che gli abbiamo demandato. Non dice la leggenda che i Golem si ribellarono a chi li aveva creati per servirsene, e fu dura battaglia riportarli nei ranghi? Io non so se un giorno, per salvarci, finiremo per obbligare gli utenti a spegnere i cellulari per almeno 8 ore. È fantascienza, ma quel giorno forse diremo che la consapevolezza iniziò con il diritto alla disconnessione, con quel “puoi non rispondere” che cambiò la Storia.