Corriere della Sera, 28 agosto 2024
Biografia di Oliviero Toscani. Sta morendo
Oliviero Toscani, come sta? «In un modo come non sono mai stato prima. Sto vivendo un’altra vita. Vengo da una generazione, quella di Bob Dylan, dove eravamo forever young, il pensiero di invecchiare proprio non c’era. Fino al giorno prima di essere così, lavoravo come se avessi 30 anni. Poi una mattina mi sono svegliato e all’improvviso ne avevo 80».
Quando è successo?
«Un po’ prima di un anno fa. Alla fine di giugno mi sono svegliato con le gambe gonfie, ero in Val d’Orcia. Ho cominciato a fare fatica a camminare. All’ospedale mi hanno diagnosticato un problema al cuore. A fine agosto sono andato a Pisa al Santa Chiara e da lì al Cisanello, dove avevamo deciso la data dell’operazione al cuore, intorno al 20 settembre».
E invece?
«È venuto a trovarmi il mio amico Francesco Merlo con suo cugino, cardiologo al Giovanni XXIII di Bergamo: un medico incredibile. Mi ha fatto andare su da loro per altri esami e hanno subito chiamato il dottor Michele Emdin a Pisa, specializzato nella malattia che pensavano avessi: l’amiloidosi. In pratica le proteine si depositano su certi punti vitali e bloccano il corpo. E si muore. Non c’è cura».
Lei però si sta curando.
«È una cura sperimentale, faccio da cavia. A ottobre ho anche preso una polmonite virale e il Covid, mi hanno tirato per i capelli. Penso di essere stato anche morto, per qualche minuto: ricordo una cosa astratta di colori un po’ psichedelici. Quando sto male e ho la febbre riesco a immaginare cose fantastiche... In un anno ho perso 40 chili. Neppure il vino riesco più a bere: il sapore è alterato dai medicinali».
Ogni cosa è illuminata da una consapevolezza irrevocabile nella «tana del lupo», come Oliviero Toscani chiama questa dependance nella Maremma Toscana dove si trasferisce quando non c’è la moglie Kirsti, l’amore di una vita e la madre dei suoi tre figli più giovani, Rocco, Lola e Ali (come Muhammad Ali). In una stanza grandeggiano poster introvabili delle mostre di Duchamp e di Müller-Brockmann, sei bici da corsa che non usa più («le altre otto sono nel garage»), una sua foto di John Lennon e Paul McCartney al Vigorelli di Milano, lui con Andy Warhol, Fellini, Clinton e Fidel Castro, un orrendo orologio a cucù dono di un compagno di studi all’Università delle Arti di Zurigo («gli chiesi il più brutto»). Nell’altra ci sono un lettino per la fisioterapia, il tapis roulant, la cyclette, un attrezzo per il sollevamento pesi, una spalliera svedese e il letto, con alle spalle la Guernica di Picasso; oltre ai libri fotografici, immagini iconiche, il didietro di chi mi ama mi segua. Tra la mattina e il pomeriggio si alternano due sessioni di fisioterapia, prima con Doriano, poi con Alessandro. Toscani indossa una maglietta del Mit di Boston, dove ha insegnato comunicazione, e una collanina di perline nere e azzurre che gli ha fatto il nipote. Si muove con le stampelle, sul petto il pacemaker sporge come una medaglia al valore. Parla con fatica.
Nell’autobiografia Ne ho fatte di tutti i colori scrive che nella tragedia c’è la bellezza. Dove la trova, nella sua personale tragedia?
«Mi viene da ridere: la bellezza è che non avevo mai pensato di trovarmi in questa situazione, è una nuova situazione che va affrontata. La bellezza è che non ti interessano più patria, famiglia e proprietà, la rovina dell’uomo».
Per quale foto vuole essere ricordato?
«Per l’insieme, per l’impegno. Non è un’immagine che ti fa la storia, è una scelta etica, estetica, politica da fare con il proprio lavoro».
Di quale è più orgoglioso?
«Non sono orgoglioso di natura, perché tutto potrebbe essere fatto meglio. Forse tengo molto al lavoro a Sant’Anna di Stazzema».
Chi glielo commissionò?
«Mi chiamò il sindaco e disse: “Tra poco saranno i 60 anni dall’eccidio e non ci sono immagini”. E io: “Dopo 60 anni trovarne è dura”. Lui: “Se lei è davvero così bravo non dovrebbero esserci problemi”. E riattaccò, ’sto stronzo. Però mi intrigò. Andai nell’unico bar e l’oste mi suggerì di parlare con il signore che stava entrando. Era Enrico Pieri: nell’eccidio aveva perso tutta la famiglia, era un bambino. Lì ho capito che si poteva fare qualcosa. È l’unico servizio che ho fatto tutto in bianco e nero, a spese mie. È la fotografia applicata nel modo giusto ed è l’unico documento di Sant’Anna».
Ha ancora voglia di fotografare?
«No, mi sono liberato di tutto. È questa la bellezza».
Ha paura di morire?
«No, non ho paura. Basta che non faccia male. E poi ho vissuto troppo e troppo bene, sono viziatissimo. Non ho mai avuto un padrone, uno stipendio, sono sempre stato libero».
Ha sedici nipoti. Si ricorda i nomi?
«No. Se ci penso un po’, sì. Sono tutti di nazionalità diversa: francesi, americani, svedesi, norvegesi...».
E i nomi dei suoi figli?
«Il primo è Alexandre, francese, ha 4 figlie. Poi ci sono le due sorelle svedesi, Olivia e Sabina, che hanno tre figli ciascuna. Infine Rocco, Lola e Ali, che hanno due figli a testa».
Chi le somiglia di più?
«Rocco fisicamente. Come carattere forse Lola: non sta mai ferma».
Sanno che non sta bene?
«Sì».
Sono venuti a trovarla?
«Sì».
Anche Olivia, che in una lettera al Corriere scrisse cose molto dure su di lei?
«Quello è stato un imbroglio, Olivia è in rotta con tutta la famiglia: la sera ti dice ti voglio bene e il giorno dopo ti manda una mail feroce. Ci sono rimasto molto male quando l’ho letta perché ha detto cose non vere. Comunque anche lei è venuta a trovarmi all’ospedale, due volte».
Vede ancora le loro madri?
«Preferisco di no. Non è vero che si rimane amici, sono tutte balle».
Kirsti come ha preso la malattia?
«Male, è entrata in crisi. Adesso è partita per andare a trovare Ali a Santo Domingo».
Perché non le ha chiesto di restare?
«Io da solo sto bene. E poi non posso coinvolgere e condizionare tutti nella mia malattia. Kirsti è un essere umano molto buono, conciliante e positivo. È raro».
Perché ora ride?
«È John Lennon che disse che la vita è quello che ti succede mentre fai altro? Quando ho detto al mio amico Luciano Benetton che avevo una malattia rara lui mi ha risposto: “Oliviero, tu sei nato con una malattia rara!”».
È venuto a trovarla?
«Ci sentiamo due volte alla settimana, ma non voglio che venga. È impegnativa per me una roba così».
Più di un’intervista?
Resta in silenzio. Poi: «Quando lavoravo in Benetton i veri nemici erano i manager. All’infuori di Luciano, tutti gli altri mi odiavano. Ora mi ha detto: “Avevi ragione tu su di loro”».
Si riferisce al Ponte Morandi?
«Quella è stata una cosa schifosa. Quel Mion lì ha dichiarato di non aver detto niente per paura di perdere il lavoro! Lo prenderei a calci».
A chi si sente più grato?
«Ho imparato da tanta gente speciale. Sicuramente da don Milani, da Muhammad Ali e da Bob Dylan. A volte una frase, anche di una canzone, è più importante di tanti libri. Oggi mi ha scritto uno studente inglese e mi ha chiesto se nella fotografia la parte artistica è stata alterata dal mio impegno etico. Ma la fotografia è impegno etico! A me non frega niente dell’estetica fotografica. La Guernica di Picasso ha un’incredibile estetica, ma ha soprattutto una forza sociale di memoria e impegno».
Cosa le dà piacere in queste giornate?
«Leggo, guardo in tv l’Inter e certe squadre inglesi. E poi c’è Sinner, che mi dà sollievo nella vita. Ora sono tutti gelosi e invidiosi di lui: tipico degli italiani. Imparerà presto chi sono i veri amici e chi no».
Come lo fotograferebbe?
«Non mentre gioca a tennis. Si vede dallo sguardo che è un ragazzo profondo. Devi fermare quell’attimo lì negli occhi, esprime onestà e capacità. Sinner non è italiano. L’italianità è Fabrizio Corona, è imbrogliona, mafiosa».
Non è troppo severo?
«Quando penso alla nostra reputazione storica... Siamo ricordati perché eravamo fascisti. Pensi agli americani e a cosa hanno fatto. Eppure hanno un’ottima reputazione fatta da cowboy e indiani. Noi siamo inaffidabili come Alberto Sordi».
Cosa c’è dopo, se lo chiede?
«Non mi interessa. Sono a posto con il padreterno, io».
Non spera nemmeno di incontrare sua madre Dolores?
«È una bella fantasia, ma io non ne ho abbastanza per coltivarla. Se la incontrassi adesso sarei più grande di lei. Non era espansiva, mi avrà dato 50 baci in tutta la vita. Mi diceva stai attento, e dal tono capivo cosa intendesse. Era figlia di uno che ha contestato il fascismo e ha bevuto non sa quanto olio di ricino. Sfortunatamente non ho conosciuto mio nonno».
Suo padre Fedele ha fotografato il Duce sia da vivo che da morto.
«A quei tempi non c’era la tv, c’era il Corriere della sera, dove lui lavorava».
Lo ammirava?
«Sì, non mi sono mai sentito un artista o superiore per quello che facevo. Poi figuriamoci di mio padre. Quando ho finito la scuola, nel 1965, mi sono reso conto che la fotografia di reportage era finita e che ne stava nascendo una più raffinata, nei giornali di moda e di design».
Come le venne in mente di regalare una mountain bike a Fidel Castro?
«Era Benetton. Con Luciano andammo a trovarlo e suggerii di portargliene una. Lui ci chiese il perché e io risposi: “Per tornare in montagna a fare la rivoluzione”. Era carismatico».
Ad Anna Wintour, invece, suggerì di cercarsi un bravo psichiatra.
Ride. «Porina, faceva una pena. Ancora adesso me la fa. Poi un giorno mi chiamò e disse: “Sai che lo psichiatra l’ho trovato e me lo sposo?”. E mi invitò a cena con loro. Lavorava per il New York Magazine, abbiamo fatto tanti viaggi insieme. Poi lei è diventata famosissima e non saluta più nessuno, anche con me fa fatica».
Perché tiene un cartonato della Bellucci?
«Guardi dietro, c’è la sua dedica: è una mia foto. Mi è grata, la portai io a Parigi, aveva 17 anni. Ma lei era già la Bellucci, piena di energia».
Quando è stato al mare l’ultima volta?
«L’anno scorso, prima di ammalarmi».
Ha un mare del cuore?
«No. O forse sì: il lido dove andavo in colonia a Cesenatico. Ero il bambino numero 287, mamma me lo cuciva addosso. Lo uso ancora nei lucchetti delle valigie o dove serve».
In quella foto lei e Aldo Coppola avete un sorriso bellissimo.
«Eravamo amici fraterni, nati nello stesso quartiere a Milano, lui figlio del barbiere, io del fotografo. Giocavamo in corso Como: al 10 c’era il deposito della Coca-Cola, noi andavamo a pulire le bottiglie e loro ce ne regalavano qualcuna. Era sfruttamento minorile». Ride.
Cosa la fa ancora arrabbiare?
«La Meloni con il suo vittimismo! Una che non sa dire “sono anti fascista” che cos’è? Non sono capaci di governare, non hanno nessuna scusa. Ma gli italiani sono fatti così. Guardi in America come si ribellano. In un mese viene fuori l’entusiasmo, la creatività...».
Il momento più bello della sua vita?
«Sono stato particolarmente privilegiato e fortunato, lo dico veramente. Già essere nato dove sono nato, con la famiglia che ho avuto, laica e libera. Poi ho avuto due sorelle maggiori super. Marirosa, in particolare, che è mancata lo scorso anno: aveva 11 anni più di me, è stato come avere una mamma giovanissima. Era un’artista, all’avanguardia, mi ha molto segnato. Anche Brunella, eh».
Si è pentito di qualcosa?
«Mi pento delle cose che non ho fatto, non di quelle che ho fatto. Potrei farmi incatenare, ma non perderei il senso di libertà. Ora sono come incatenato, ma sono libero di pensare come penso e di agire come penso dovrei».
Le dispiace che sia andata così?
«Mi domando se non sarebbe stato meglio un problema di demenza, ma con un corpo sano. Sarebbe stato peggio per gli altri».
I medici hanno detto quanto tempo le resta?
«Non si sa. Certo che vivere così non mi interessa. Bisogna che chiami il mio amico Cappato, lo conosco da quando era un ragazzo. Ogni tanto mi vien voglia. Gliel’ho detto già una volta e lui mi ha chiesto se sono scemo».
Ha davanti la lampada di Aladino: esprima tre desideri.
«Eliminare l’ingiustizia, che vuol dire le differenze sociali ed economiche. Eliminare la violenza. Eliminare tutto ciò che è tossico».
Non ne ha usato nessuno per guarire.
«Quello è egoismo totale».
È ateo?
«Non sono ateo. Solo, non partecipo a tutto questo, non mi interessa il tema».
Ha deciso come vuole essere salutato?
«Non voglio un funerale. Mi portino a bruciare e via. Sono sempre stato laico, neppure i miei figli ho battezzato. Vivere vuol dire anche morire, eppure nessuno parla della morte. Si vive come imbrogliandosi, perdendo tempo».
Lei ne ha perso tanto?
«Ho cercato il meno possibile. Non ho mai dormito fino alle 9, neppure la domenica».
Al Museum für Gestaltung di Zurigo c’è una sua mostra. È andato a vederla?
«Ha battuto tutti i record: doveva finire a metà settembre e invece la prolungano fino alla fine dell’anno. Pensare che ci passavo davanti, quando ero studente, ammirando chi riusciva a esporre lì. E adesso ci sono io. Non sono ancora andato. Magari, quando torna, mi ci accompagna Ali. E poi magari proseguo il viaggio con Cappato. Farebbe molto ridere».