Il Messaggero, 25 agosto 2024
Biografia di Michele Mirabella
Michele Mirabella è un galantuomo d’altri tempi. Ironico, colto, carismatico. Non necessariamente simpatico, solo perché non gli interessa. Palesemente insofferente alle ovvietà. Seduce con divertimento e gigioneggia sull’età. «Professore, ci siamo già incontrati sul palco per un premio», e lui risponde prontamente: «L’ho corteggiata, vero?». Non si uniforma al tu imperante, e questo gli conferisce autorevolezza. Lo chiamano “il professore”, non perché pontifichi, ma in quanto docente di Sociologia della comunicazione: teoria e tecniche nella facoltà di Beni culturali dell’Università di Lecce e presso l’Università di Bari. È un regista, attore, conduttore e autore televisivo e radiofonico. Studia sempre e conosce la capacità della divulgazione. Nel momento in cui gli viene sollecitato un ricordo estivo risponde: «Quando passano gli anni, pensi sempre di più ai genitori». La memoria, però, l’ha portato su altri lidi. O prati.
Professore, una sua estate indimenticabile?
«Avevo poco più di sedici, diciassette anni. Era una bella estate, in una località montana della Lucania. Lì trascorsi una ventina di giorni, in un soggiorno dedicato alle famiglie dei dipendenti del Ministero della difesa. Ero uno dei 25, 30 giovani, tra i quattordici e i venti anni, in una struttura di villeggiatura, che vivevano la combutta turistica. Si facevano passeggiate, si accompagnavano le mamme a raccogliere le fragole, si giocava. C’era l’orchestrina e si ballava tenendosi tra le braccia. Si capiva che era una preparazione ludica al sesso. Io non ballavo, ero taciturno e appartato. Ecco il problema. La mia timidezza non mi poteva convincere che fosse una cosa seria zampettare sul Fred Buscaglione».
C’è stata una chiave di volta?
«Fino ad allora non mi ero reso conto di essere affabile. E soprattutto di essere non troppo ignorante e di avere una piccola erudizione non solo scolastica. In questo essere una specie di personaggino quasi incomprensibile per quasi tutti i miei coetanei, un giorno piovve. Una signorina più grande di me – ma non gliel’ho mai confessato – disse: “L’altro giorno ho sentito che stavi parlando della storia di questo paese” e mi pungolò a raccontare in maniera popolare. Era una donna intelligente. A me piaceva rendere la storia popolare, ero un divulgatore e cominciai a narrare del mezzogiorno d’Italia. Attrassi l’attenzione di alcune persone – gli altri stavano a dire puttanate – compreso un corteggiatore assiduo di questa ragazza. Le fece un rimbrotto come a dire: “Guarda che abbiamo andare via, c’ho la macchina”. Era romano, naturalmente. Lei fece un gesto con la mano destra come a dire: “Scompari, vattene"».
E lei?
«Il mio ego ebbe una medicina ricostituente. Lei voleva ascoltare me. Me! Non era una compagna di scuola ma una donna più grande. Voleva ascoltare Michele. Ad un certo punto mi chiese: “Perché stai leggendo Franz Kafka?”. Mi aveva spiato. Le spiegai perché leggevo avidamente autori che a sedici anni generalmente si scansano. Ma vedere la sua attenzione statica, veder cacciare via il babbuino molestatore solo perché aveva la macchina e mettere il palmo della mano sotto il suo mento per tenersi l’emozione sul suo sorriso, mi fece sentire per la prima volta importante».
Ne approfittò?
«No, mi spiacevano le spacconate, mi accontentavo di meditare sulle cose... E le cose mi facevano spesso ridere».
Come si chiamava?
«Chiamiamola con un nom de plûme: Angelica. Giusto per rimanere sul sobrio. Ci siamo frequentati assiduamente. Non era coltissima, non aveva letto un granché. Però aveva un’estrema curiosità. Aveva i capelli biondo rossicci. Più rosso che biondo, come la mia sorella gemella. Aveva una sensualità casta, scusi l’ossimoro. Mi colpì nel desiderio. La première fois... Avvenne con la frettolosa passione di un giovane. Quasi tutto governato da lei. Ricordo che, nel prato dove ci eravamo nascosti appositamente, emozionatissimo, ero anche preoccupato per un’ortica a 10 cm dal mio naso. “Scusa, qui c’è un’ortica”. E lì ho capito che io avevo inconsapevolmente un certo buon senso umoristico. Anzi, lo presto. Il che non vuol dire essere per forza Achille Campanile perché si può essere anche Goethe o Kafka. A casa mia c’erano come 7000 volumi che erano di famiglia. I libri, all’epoca, venivano ammonticchiati e non appartenevano a uno dei sette, otto figli. Erano i libri della famiglia. Potevi trovare un trattato militare ante litteram insieme all’Ars amandi di Ovidio. Io mi occupai della biblioteca, soprattutto andando a caccia di libri sull’amore e sul sesso».
Torniamo ad Angelica
«Iniziò una relazione. Durata pochissimo. C’erano delle situazioni logistiche che ne impedirono il prosieguo. Avevo una piccola morosa a Bari che mi aveva reso esausto dai continui dinieghi. E anche lei, Angelica che era più che ventenne, aveva qualcuno. Feci qualche scappata nella sua città, Napoli. Per noi pugliesi era una capitale. Mio padre capì tutto. Mi diede come uno scappellotto a dire con sorridente determinazione: “Però, ce l’hai fatta!”. Mi aveva promosso adulto. Guai a farmi domande imbarazzanti, era un gentiluomo».
È tornato alla sua casta relazione barese?
«A quel punto poteva diventare non più casta, e così fu, ma non mi interessava più. Era molto attraente, le facevano la corte tutti, ma aveva una nevrosi. Io non avevo la Spider Alfa Romeo, andavo a piedi. Lei era attratta dai capi. E io avevo fatto un salto che non c’entrava niente con l’amore. Questa era una storia di persone».
Non ha più cercato Angelica?
«Ci mancherebbe altro. Ma le sembra che uno va a cercare gli errori che ha fatto? Nel senso più classico della parola. L’errore non è lo scandalo, la pietra d’inciampo. L’error e quella cosa che ti insegna. Se lo ripeti, sei cretino. Era una storia di vita, di amicizia bella. Di erotismo».
Ultima domanda. Lei si sente superiore?
«Dipende da dove siamo. Può succedere che mi senta superiore. Ma non mi diverto. Mi trovo a mio agio e sveglio con le persone più intelligenti di me. E più esperte della vita. Temo sempre che non mi accorga di un minaccioso cespuglietto di ortica troppo vicino».