Avvenire, 27 agosto 2024
Reportage da Myrnohrad, "la città della pace", nell’oblast di Donec’
Non è rimasto nulla dentro la chiesa. Né le panche; né le icone; né l’altare. Tutto impacchettato e caricato su un camion. «Abbiamo già trasferito l’intero arredo a Dnipro», racconta padre Ivan Vasylenko. A duecento chilometri di distanza, nel cuore dell’Ucraina.
La parrocchia greco-cattolica con la cupola grigia e le finestre azzurre, che finora ha guidato il sacerdote 48enne, è lo specchio di Myrnohrad. La città che non esiste più nell’estremo oriente del Paese. Devastata. E svuotata. Con l’esercito russo che avanza ed è a meno di tre chilometri. Troppo vicino per non disporre l’evacuazione forzata di un abitato che contava 50mila persone e adesso è terra di nessuno. «Probabilmente verrà occupato», sospira padre Ivan. Allora si fa fatica a pensare che Myrnohrad sia la «città della pace», come dice il suo nome. Soprattutto in pieno Donbass dove la pace si ferma alla toponomastica e le truppe di Putin macinano nuove conquiste.
Mentre il macabro calendario della guerra ha superato i novecento giorni, è l’oblast di Donetsk quella su cui si accanisce il Cremlino e quella dove i battaglioni ucraini non riescono ad arginare l’offensiva di Mosca. Due terzi della regione sono già sotto il controllo russo. L’obiettivo è strappare a Kiev il resto del territorio. E impossessarsi delle due maggiori città dell’oblast rimaste ucraine: Kramatorsk e Pokrovsk. In entrambi i distretti è scattata l’evacuazione obbligatoria. L’incursione nella regione russa di Kursk non si è tradotta in un travaso di battaglioni putiniani dal Donbass all’area assediata.
Anzi, gli sforzi russi sono cresciuti: quasi una vendetta targata Cremlino. L’armata russa incombe sul villaggio-vedetta di Chasiv Yar la cui caduta aprirebbe la strada per Kramatorsk, a meno di venti chilometri. Ma è Pokrovsk l’area più in bilico, con il suo comprensorio dove si trova anche Myrnohrad e da cui passa una delle principali arterie regionali. E quella da cui si fugge in massa per salvarsi dall’invasione russa. «Abbiamo ancora una settimana di tempo per sgomberare Myrnohrad e due per agire su Pokrovsk», dice il capo dell’amministrazione militare regionale, Vadym Filashkin. Località strategiche sia per la posizione geografica, sia per i giacimenti di materie prime. «I russi le vogliono anche per prendersi le miniere e il gas che abbonda», afferma padre Ivan. E la loro caduta diventerebbe una testa di ponte per Mosca verso le regioni di Zaporizhzhia e di Dnipro.
Ogni giorno il “treno degli evacuati” parte da Pokrovsk in direzione di Leopoli, attraversando l’intera Ucraina. La banchina lungo i binari è il “santuario” delle lacrime e degli addii. Lyudmilla ha raccolto gli abiti invernali, una coperta e l’album delle foto di famiglia dalla casa che ha abbandonato. «Non so se torneremo mai qui, ma almeno avrò con me i ricordi di una vita», sospira. I vagoni sono pieni di mamme con bambini. E di anziani. Come anche i bus e le colonne di auto che si muovono in mezzo ai bombardamenti. Perché la città è da settimane sotto il fuoco costante. Chi ormai vede la Russia dietro l’angolo è Myrnohrad. «Il nemico la sta distruggendo con bombe, colpi d’artiglieria, attacchi aerei», spiega padre Ivan. Da ieri tutti i negozi sono chiusi. Per disposizioni del municipio. E per favorire l’esodo degli irriducibili. Metà della città è rasa al suolo. Macerie, palazzi sventrati e abitazioni ridotte a ruderi si susseguono ovunque. Il coprifuoco dura venti ore al giorno: con una finestra di quattro ore per fuggire o procurarsi il necessario a sopravvivere.
«Corriamo a fare scorta di acqua o di verdure al mercato clandestino», dice Yury, ancora persuaso a non sfollare. Vive fra i «soldati delle nostre forze armate, gli unici rimasti in città», fa sapere il parroco. «Quando saremo costretti ad andarcene – spiega il portavoce della 59ª Brigata motorizzata, Serhii Tsehotskyi – non significherà arrendersi. Sarà un ritiro per preservare i militari». La parrocchia greco-cattolica è stata un hub solidale per la gente in fuga. Distribuendo «medicinali, vestiti, cibo che le persone hanno portato via», continua padre Ivan. E aiutando gli evacuati «a trovare un posto dove vivere in altre regioni».
A lui si deve il nuovo “battesimo” della città che è sinonimo di estrazione di carbone. «Si chiamava Dymytrov, in onore a un attivista comunista della Bulgaria. Nel 2016 il municipio ha voluto cambiarle il nome. Era una reazione agli scontri dei russi iniziati due anni prima. Allora ho suggerito di farne una voce di speranza». E il Consiglio comunale ha approvato la proposta. «Il nemico si sta muovendo più veloce del previsto – avverte il capo dell’amministrazione militare Yury Tretyak –. Qui deve rimanere il minor numero possibile di residenti». Anche l’ospedale è già svuotato. «Malati, personale e attrezzature sono stati trasferiti nell’Ucraina centrale», riferisce la direttrice Olga Gosteva.
Fra le ultime a lasciare i reparti Hanna, ricoverata da tre mesi per più fratture. «Non ho nessuno. Che fine farò?», domanda in lacrime mentre viene caricata in ambulanza. «Presto saremo anche senza elettricità e acqua», sostiene Tretyak. Ma con le bandiere russe pronte a sventolare lungo le vie