il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2024
Una cartolina da Mosca, firmata da Paolo Nori
Il mondo si divide un po’ tra quelli che gli piace il mare e quelli che gli piace la montagna; io, le due città che mi piaccion di più, al mondo, sono Parma e Mosca, che non c’è né mare né montagna.
A me piace la pianura, si vede, che di quella ce n’è tanta, sia a Parma che a Mosca, e Parma, a Parma ci vado spesso, è a 90 chilometri da casa mia, a Parma non c’è problema, a Mosca invece è un po’ più complicato ma quest’anno, mi hanno invitato i primi di settembre a un convegno di traduttori, e io ho pensato che ci vado.
Se uno vuole andare in Russia, da qualche mese, deve chiedere il visto direttamente su Internet, che è una cosa che ho fatto i primi di agosto giorni fa e pochi giorni dopo mi è arrivata la risposta che è stata, è incredibile, positiva.
Così, io, i primi di settembre, è incredibile, vado a Mosca, che è, per me, la città più bella del mondo (insieme a Parma). Tanta di quella pianura.
Dal 2015 al 2019 io tutti gli anni ho guidato dei gruppi di appassionati di letteratura a vedere i luoghi dove è nata la letteratura russa, Gogol’ maps, si chiamavan quei viaggi, abbiamo cominciato con Pietroburgo, e quelli che sono venuti a Pietroburgo mi hanno poi chiesto di farne uno uguale anche a Mosca e io l’ho fatto e mi sono stupito che la maggior parte di loro, Pietroburgo gli era piaciuta moltissimo, ma Mosca gli è piaciuta di più.
Pietroburgo è bellissima, una città imperiale, costruita perché tu la veda e dica “È bellissima”, Mosca, invece, ti vien da dire lo stesso “È bellissima”, ma non capisci il motivo, e allora forse ti sembra ancora più bella.
Uno dei posti in cui ho portato i partecipanti di Gogol’ maps, a Mosca, è un posto dove vado per piangere, il cimitero del monastero di Novodevic’e.
Ci vado per portare tre fiori sulla tomba del poeta su cui ho fatto la tesi, che si chiama Velimir Chlebnikov e che è nato nel 1885 e è morto nel 1922.
Tutte le volte che sono lì, sulla tomba di Chlebnikov, mi torna in mente la prima poesia di Chlebnikov che ho letto, nell’ottantanove, alla biblioteca Guanda di Parma: “Quando stanno morendo, i cavalli respirano, Quando stanno morendo, le erbe si seccano, Quando stanno morendo, i soli si bruciano, Quando stanno morendo, gli uomini cantano delle canzoni”.
Al cimitero di Novodevic’e sono sepolti molti altri scrittori, Nikolaj Gogol’, Michail Bulgakov e Anton Cechov, per esempio.
Cechov, che è nato al sud, a Taganrog, sul mar d’Azov, quando si è trasferito a Mosca, a 17 anni, ha detto “Io, per il resto della mia vita, sarò un moscovita”; qui ha studiato e praticato la medicina, qui ha cominciato a scrivere racconti.
In uno di questi racconti, si intitola Van’ka, c’è un ragazzo che, per Natale, si mette a scrivere al nonno mentre il cielo, moscovita, “era tutto cosparso di stelle che brillavano, allegre, e la Via Lattea si disegnava così chiaramente come se, prima delle feste, l’avessero lavata e sfregata con la neve”.
Uno dei posti dove siamo stati coi partecipanti a Gogol’ Maps è la casa-museo Cechov, al numero 6 di via Sadovaja-Kudrinskaja, dove, sulla porta, ho visto la targa “Anton Cechov, dottore in medicina”, e avevo appena letto la biografia di Cechov scritta da Fausto Malcovati nella quale si racconta che, quando a Cechov “muoiono due pazienti di tifo (moglie e figlia del pittore Janov, ndr) fa togliere dalla porta la targa ‘dottore in medicina’: si vergogna della sua imperizia”.
In quel libro ho scoperto che Cechov era nipote di un servo della gleba, e ho letto un passo che racconta bene, secondo me, cosa voleva dire, essere discendenti di servi della gleba, nella Russia di fine Ottocento: “Provate un po’ a scrivere la storia di un giovane, figlio di un servo della gleba, che è stato garzone di bottega, cantore in chiesa, allievo di ginnasio, studente universitario, spesso frustato, educato a venerare le gerarchie, a baciar la mano ai popi, a inchinarsi alle idee altrui, a profondersi in ringraziamenti per ogni boccone di pane; di un giovane che andava a dar ripetizioni senza galosce, s’azzuffava con i compagni, pranzava con piacere dai parenti ricchi, era ipocrita con Dio e con gli uomini senza nessun bisogno, solo perché consapevole della propria nullità. Provate a raccontare come quel giovane sia riuscito a strizzare fuori, goccia a goccia, il servo che ha in sé, e come destandosi un bel mattino, sente che nelle sue vene non scorre più sangue di servo ma vero sangue di uomo libero”.
A Mosca. Questa cosa, a Cechov è successa a Mosca, credo.
C’è un altro libro, che ho riletto quest’estate, Anton Cechov. Vita attraverso le lettere, a cura di Natalia Ginzburg, e una cosa che mi piace, di Cechov, è che i suoi amici e i suoi parenti lo trattavan malissimo.
Il fratello Aleksandr, per dire, quando esce il primo libro di Anton gli scrive: “La Russia sentirà parlare di te, Antoša. Muori presto, che ti piangeranno anche al di là dal mare. Ma intanto, la gente il tuo libro lo compera molto malvolentieri”.
E Tolstoj, che era un suo caro amico, e al quale i racconti di Cechov piacevano moltissimo, non era molto attratto dal suo teatro: “Sapete – gli dice una volta – io detesto Shakespeare, ma le vostre commedie le trovo perfino peggio delle sue”.