il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2024
L’Ue e quell’arietta di censura sui social
Come rendere sicuro l’ecosistema digitale senza comprimere gli spazi di libertà online è un dilemma su cui gli esperti si interrogano da tempo senza avere una risposta univoca: definire ciò che è sicuro, specie quando si parla di opinioni o letture di fatti, è terreno assai scivoloso. L’Ue, per parte usa, pare aver optato per privilegiare la sicurezza a scapito della libertà di parola: negli ultimi anni, e ancor più dopo l’invasione russa dell’Ucraina, basta agitare la parola-manganello “fake news” per poter intervenire in modi impensabili fino a poco tempo fa (chiusura di account, cancellazioni di pagine, etc).
Un caso plastico di quanto stretto sia il sentiero tra buone intenzioni e repressione sono le notizie in arrivo da Gaza: ripostare sui social un contenuto di una fonte ritenuta “vicina ad Hamas” può esporre gli utenti – sulla base del Digital Service Act (Dsa) entrato in vigore un anno fa – alla censura o peggio; difficilmente questo accadrà se la fonte è israeliana, non meno di parte della prima su quel che accade nella Striscia.
Lo scontro tra la Commissione Ue ed Elon Musk avviene in larga parte attorno a questo tema e non a caso a ottobre deflagrò proprio sulla guerra in Medioriente: Bruxelles accusò X di non censurare contenuti violenti, antisemiti o addirittura terroristici; la piattaforma rispose sostenendo di rispettare i criteri di moderazione, di collaborare con le autorità e chiedendo i singoli casi di violazione. Come in ogni cosa seria non mancano gli episodi ridicoli, ancorché rivelatori: il commissario al Mercato Interno Thierry Breton ha pensato bene di diffidare Musk preventivamente sui contenuti della sua intervista a Donald Trump, realizzata negli Stati Uniti per le Presidenziali americane; l’europarlamentare macroniano Sandro Gozi ha minacciato di “smantellare X in Europa” se “Musk non si adegua alle regole europee sui servizi digitali”.
Non sappiamo ancora se il caso dell’arresto di Pavel Durov, il fondatore di Telegram, ponga problemi di questo tipo, la magistratura francese finora ha reso pubblici solo i titoli dei reati: il rifiuto di cooperare su specifici reati con gli inquirenti può avere profili penali agibili in Francia, ma quando si parla di “fornitura di servizi di crittografia (…) senza dichiarazione conforme” la faccenda si fa equivoca. Telegram – che in diversi Paesi, Italia compresa, ha collaborato (poco) con le autorità su singoli casi – è un app di messaggistica, non un social, e si rifiuta programmaticamente di fare interventi preventivi sulle conversazioni private degli utenti, di fornire i loro dati o di segnarli (il Dsa, peraltro, non si applica alle app di messaggistica, ma potrebbe riguardare i “canali” aperti).
Da questo punto di vista Telegram – che è assai diffuso in Stati non democratici proprio per la sua linea sulla riservatezza – è oggi l’anti-Whatsapp: la svolta, per il sistema di messaggistica di Meta, arrivò con l’arresto in Brasile nel 2016 del vicepresidente di Facebook Diego Dzodan, dopo che la app si era più volte rifiutata di cooperare con la magistratura. Da allora Zuckerberg e soci, finiti sotto pressione anche del Congresso Usa, hanno radicalmente cambiato linea e segnalano (e censurano) gli utenti senza neanche bisogno della richiesta di un magistrato. Ecco perché molti ieri, e non solo criminali, disinstallavano Telegram.