Il Messaggero, 27 agosto 2024
Petros Markaris racconta le sue estati
«Il ricordo più caro risale agli anni della mia gioventù, quando passavo le estati ad Heybeliada, nelle isole dei Principi, nel mar di Marmara, vicino a Istanbul». A parlare è il grande giallista greco Petros Markaris, 87 anni, che oggi ad Ancona sarà il protagonista dell’Adriatico Mediterraneo Festival, giunto alla sua diciottesima edizione.Cosa rende questo ricordo così prezioso?«È il luogo in cui sono nato, e in cui ho vissuto da ragazzo. All’epoca aspettavo con impazienza l’arrivo dei turisti estivi, per liberarmi dalla solitudine dell’inverno e dalla pesantezza di quella stagione. Ho scoperto soltanto poi che quella solitudine aveva fatto di me uno scrittore».E cosa faceva sull’isola?«Se escludiamo i miei studi, leggevo romanzi tutto il tempo. Ho iniziato con la letteratura turca perché nell’isola in cui vivevo c’era una piccola libreria che vendeva solo questo. Ho una profonda conoscenza dei romanzieri e dei poeti turchi degli Anni Cinquanta e Sessanta. Il mio rapporto con la letteratura greca e tedesca inizia a metà degli anni Cinquanta».Oggi, cosa la spinge a scrivere?«La rabbia. Quando c’è qualcosa, nella società e nella politica, che mi manda ai matti, ne scrivo. Solo così ritrovo la calma». In quest’ultimo suo libro, “La violenza dei vinti”, qual è stata la molla che l’ha spinta a scrivere?«La mia generazione è cresciuta in un tessuto sociale che aveva un suo sistema di valori. Ma oggi, i giovani crescono in un ambiente in cui contano soltanto i soldi. Questo, ovviamente, ha delle conseguenze, e molti ragazzi pensano che in un mondo diviso tra vincitore e perdenti, la violenza sia l’unica risposta. È un problema molto sentito in Grecia e che comincia a manifestarsi presto, nelle scuole, con il bullismo».Quali altri problemi sociali la colpiscono particolarmente?«Me ne sono occupato nel mio romanzo precedente: la violenza contro le donne, i femminicidi. È un problema che sta contagiando le famiglie, dove si vede quasi ogni giorno l’uso della violenza, degli uomini contro le donne, ma anche nei confronti dei figli. Questo ha creato nella società greca una realtà che in molti casi è plasmata dalla forza».E questi sono i problemi che affronta il suo iconico detective, Kostas Charitos. Come lo descriverebbe, in poche parole?«Kostas Charitos viene dall’Epiro, una regione molto povera della Grecia. È cresciuto in una famiglia modesta, il padre era un ufficiale della gendarmeria e anche sua madre era di povere origini. Ma è proprio da questa estrazione sociale che vengono i suoi valori, che lui tiene in altissima cosiderazione».Come mai Kostas non possiede libri, ma solo dizionari?«Perché ha avuto in dono dalla nonna questo vecchio dizionario Dimitrakos, che in Grecia è un’opera leggendaria. Questo lo ha appassionato allo studio del significato e dell’origine delle parole». E la sua famiglia?«La figlia ha studiato, con molti sacrifici dei genitori, a Salonicco. Ma è una famiglia restata molto unita, il genero è stato accolto a braccia aperte. Quando Antigone diventa capo della squadra criminale, la invitano a casa, e vengono creati dei rapporti di grande amicizia».Ha visto la serie tv tratta dai suoi libri che approderà su Rai1 il 12 settembre, “Kostas”?«Certo, ho visto i primi quattro episodi e devo dire che hanno fatto un lavoro meraviglioso, nell’adattare i romanzi alla televisione».E che ne pensa dell’attore scelto per la parte principale, Stefano Fresi?«Stefano è ideale questo ruolo. La prima volta che ho visto Stefano sul piccolo schermo ho esclamato: “ma questo è Charitos"».È stato coinvolto nella sceneggiatura? «No, non ho neanche voluto leggerla e le spiego perché. Sono stato uno sceneggiatore per tanti anni e so bene che scrivere un romanzo e il suo adattamento sono due lavori differenti. Non volevo interferire. Ma mi sono messo a disposizione, per qualsiasi domanda o richiesta di chiarimenti».Lei ha lavorato a lungo con Theo Angelopoulos. Com’è il suo ricordo di quel periodo?«Siamo stati molto amici, ho collaborato con lui per una dozzina di film, non ricordo neanche esattamente quanti. Quando non era d’accordo con me per qualche proposta o soluzione, mi diceva: “Ma come, lavoriamo assieme da tanto tempo e non hai imparato niente dal cinema?” L’ultima volta che ci siamo visti, all’Università di Venezia, gli dissi che non era vero. I miei non sono dei capitoli, sono dei piani sequenza. E questo l’ho imparato da lui».Cosa dirà ad Ancona, al pubblico del Festival?«Partendo dal mio romanzo, spiegherò che sono proprio i gialli mediterranei a cominciare a occuparsi seriamente di società e di politica. Ha cominciato il francese Jean-Patrick Manchette, poi hanno proseguito su questa strada Leonardo Sciascia, lo spagnolo Manuel Vázquez Montalbán, Andrea Camilleri».Qualcuno la definisce il “Camilleri greco”, la lusinga?«Ne sono molto fiero, perché siamo stati molto vicini. È stato un mio grande amico».Lascerebbe mai Atene per un’altra città?«Guardi, ho passato tutta la mia vita con la valigia. Sono nato e cresciuto a Istanbul, in Turchia. Ho vissuto a Vienna, e a Stoccarda. Sono venuto a vivere ad Atene soltanto perché ho sempre desiderato diventare uno scrittore e volevo scrivere nella mia lingua madre, il greco».È preoccupato della situazione internazionale? Teme la guerra?«Mi fa paura sia il conflitto in Ucraina che quello a Gaza tra Israele e Hamas. Mi preoccupano, temo che qualcosa possa andare storto e causare un’escalation. E i miei timori crescono perché nessuna delle parti sembra in grado di fare la cosa giusta, sedersi al tavolo delle trattative e cominciare un negoziato, trovare una soluzione».Cosa rappresenta l’Italia per lei?«La mia connessione con l’Italia è mediata dai miei lettori. Ed ho un ottimo rapporto con loro. Sono sempre felice, quando vengo in Italia, per potere parlare con i miei lettori italiani. Ma il mio rapporto con l’Italia è iniziato con Andrea Camilleri».Se Camilleri fosse vivo, cosa direbbe?«Credo che sarebbe molto arrabbiato per come vanno le cose nel mondo».