La Stampa, 27 agosto 2024
Un ricordo di Sven Goran Eriksson
Era un Liedholm con un’ironia meno annaffiata, curata e inseguita. Ne affronto il ricordo con il pudore e il rispetto che l’uomo meritava. Sven ha vissuto due vite. La prima nella complessità del lavoro e nella riservatezza della famiglia tradizionale, una vita tutta misura, normalità, forma, un’esistenza educata. La seconda più sorprendente e turbolenta, quasi scioccante: di passioni che pensavamo non potessero appartenergli. «Ma a chi non piacciono le donne?» rispose un giorno al Telegraph. «Quelle con cui uscivo non erano sposate, io non ero più sposato. Ho avuto relazioni burrascose, ma non ho perso un solo allenamento o una partita per una donna». Lui riusciva a sembrare esterno alle tempeste.L’avventura italiana, parte della sua prima vita, l’ho frequentata dalla Roma alla Lazio, passando per Firenze e Genova. O meglio, l’ho seguita con attenzione e affetto anche.Sven è stato un’anomalia, era considerato moderno ma sarebbe più corretto dire sempre attuale. Lasciava ai giocatori una libertà enorme eppure condizionata, nel senso che aveva sempre tutto sotto controllo. Alla Boskov. Non dettava ordini, non pretendeva il rispetto del ruolo, lo otteneva con i comportamenti e quel personalissimo modo di gestire le ribellioni individuali. Più di una volta è stato affrontato a brutto muso da un giocatore che rivendicava più spazio e considerazione. Sven diventava tutto rosso, non si alterava, assorbiva con disinvoltura, lasciava che l’altro si sfogasse e chiudeva con queste parole – provate per un istante a immaginare il suo tono di voce, così disarmante -: «Vedrai che prima o poi arriverà il tuo momento».Lo scudetto con la Lazio del 2000 nacque anche da un fortissimo contrasto col gruppo che lui era riuscito in qualche modo a mantenere nello spogliatoio. Alcuni giocatori non l’ascoltavano più e la domenica i punti cominciavano a mancare: nel dicembre del ’99 uno di questi, pretendendo l’anonimato, rivelò la crisi di rapporti al Corriere dello Sport procurando una sorta di terremoto ambientale. Dopo la prima fase di frustrazione e l’inutile caccia al responsabile, Sven riuscì a sfruttare quell’episodio a suo favore, aggiustò le cose attraverso colloqui individuali, e la Lazio ritrovò la giusta serenità e convinzione. I valori tecnici erano comunque molto alti.Il modo in cui ha vissuto la malattia e il percorso verso la morte ha ricordato tanto quello di Luca Vialli: la delicatezza e la forza con cui si sono raccontati hanno esaltato l’essere umano, la persona. Ed erano diversissimi. L’ineluttabilità della fine, il destino segnato, la grazia di chi, comunque in qualche modo appagato, dimostra di accettare quello che la vita gli ha voluto riservare. «Così è». E poi: «È triste, ma è stato bello».È stato bello conoscere «Svengo», lo è stato per tutti quelli che ne hanno incrociato la trasparenza della prima vita e attraverso le ultime, dolorosissime e commoventi immagini hanno provato un senso di malinconia.