la Repubblica, 27 agosto 2024
L’ultima lezione di Sven Goran Eriksson
Il senso inevitabile della morte che diventa il senso profondo della vita. Questo è stato il meraviglioso, lungo, dolorosissimo e dolcissimo commiato di Sven Goran Eriksson, da quando a gennaio annunciò di essere condannato da un cancro al pancreas fino alla sua scomparsa, ieri, a 76 anni. Una morte accompagnata da parole che non potranno, non dovranno essere le ultime: «Non siate dispiaciuti. Sorridete. Grazie di tutto: allenatori, giocatori, pubblico. È stato fantastico. Prendetevi cura di voi stessi, della vostra vita e vivetela fino in fondo. Addio». Perché, a volte, il senso della morte degli altri può essere il senso della vita di chi resta.Personaggio speciale, unico. Allenatore magistrale e persona di stile, quando lo stile è sostanza e non forma. Forse è per questo che il mondo british lo ha così tanto amato, lui svedese non certo di ghiaccio, quando Svennis si è seduto sulla leggendaria panchina dei Tre Leoni. Anche Eriksson, in fondo, un gattone sornione e astuto, però tenero come un peluche, senza la ferocia delle fiere.La sua prestigiosa carriera di tecnico, campionato più coppa nazionale insieme nello stesso paese per tre volte come nessuno mai (Svezia, Italia, Portogallo), un’incredibile Coppa Uefa col Göteborg e una Champions perduta col Benfica contro il Milan di Sacchi, lo scudetto sfiorato alla Roma e vinto con la Lazio (insieme alla Coppa delle Coppe e alla Supercoppa europea) va però illuminata dalla potenza del finale, incomparabile persino rispetto al suo calcio davvero internazionale. E cioè il lungo addio che Eriksson si è concesso in questi mesi tremendi e lucenti, andando ancora una volta ad abitare per qualche ora in tuttele sue case di allenatore, cioè gli stadi che lo hanno amato e applaudito, e poi il sogno realizzato di guidare il Liverpool per un giorno soltanto. Lui, gonfio per le cure e barcollante, non è mai diventato patetico in questa gioia condivisa tra le lacrime dei tifosi, perché l’anima di Svennisaveva e forse ha ancora il ciglio asciutto. Quello sguardo capace di posarsi sulla bellezza delle cose anche se effimere, soprattutto se effimere. Per poi scoprire, tutti insieme, che il senso rimane, che il senso non muore.Grande comunicatore di sé stesso, Eriksson aveva deciso che la condivisione dell’ultimo tratto di strada andava fatta proprio così. E allora l’annuncio della malattia, serenamente, e poi quei viaggi, i video (indimenticabile quello con Nesta), i messaggi, persino un documentario perlasciare non solo una traccia ma un solco profondo. Di lui, naturalmente, non potremo dimenticare questo saluto così speciale, ma neppure il sommo magistero tecnico che seppe distillare il meglio del gioco a zona, adattandolo a una concretezza che non aveva mai nulla di integralista. Che fosse un maestro autentico lo dimostrano le carriere, brillantissime, come allenatori, da parte di alcuni suoi ex giocatori: Roberto Mancini, Simone Inzaghi e Diego Simeone tra tutti. A loro ha trasmesso un po’ del suo stare al mondo, quella postura esistenziale che permette agli uomini di mantenere la schiena dritta sempre. Umanità, calore, simpatia e qualche digressione rosa, assai apprezzata dai tabloid britannici, perché chi molto ama lo fa come si deve.E l’amatore Svennis non si è negato nulla: i suoi 76 anni di vita vanno moltiplicati parecchio. Con il calcio andò ad allenare e incuriosirsi anche in Cina, nelle Filippine, in Costa d’Avorio, in Arabia e in Messico, ma forse nulla gli è rimasto nel sangue più di Portogallo, Italia e Inghilterra. Da noi ha conosciuto piazze e città diverse, le due sponde del Tevere ma anche Firenze e Genova, versante Sampdoria. Ha vestito la stessa maglia blucerchiata di Gianluca Vialli, colpito dall’identico male, il tumore al pancreas che quasi mai perdona, entrambi capaci di lasciare amore e testimonianza: Luca e Sven ci ricordano quanto sia importante prenderci cura delle nostre vite, questo a volte sa fare il calcio, veicolo di mondi e di cuori. Sia lieve la terra al lievissimo Svennis.