Corriere della Sera, 27 agosto 2024
Nel dna dei Promessi Sposi
È mercoledì 25 novembre 1840 quando, in prima pagina, il giornale trisettimanale milanese «La fama» spara la notizia dell’uscita, «finalmente», nei giorni immediatamente precedenti, del primo fascicolo di 16 pagine «colla bella carta e caratteri» della nuova versione dei Promessi sposi. Sabato 28 il bisettimanale milanese «Glissons, n’appuyons pas» non si limita a parlare di «libro quasi del tutto nuovo», ma, nel mentre annuncia l’imminente uscita del secondo fascicolo a cadenza quindicinale, fa addirittura di più: promette di dare in uno dei prossimi numeri «un’idea delle variazioni in fatto di lingua», procurando «d’indicare l’indole di queste, persuasi come siamo che formeranno esse tema di studi fra i nostri uomini di lettere». Che è quanto puntualmente accade sul numero 101 di mercoledì 16 dicembre 1840 dove il giornalista che si firma Y sottopone a un confronto testuale (sia pur con qualche comprensibile imprecisione) ben 22 passaggi dell’edizione del 1827 (Ventisettana) con quella del 1840 (Quarantana), del tipo «1. Edizione. – Dai bastioni di Milano che rispondono verso settentrione. 2. Edizione. – Di su le mura di Milano che guardano verso settentrione». Ed è il via a un lavoro che si fa anche subito corposo, come nel caso di Francesco Ambrosoli che, nel numero del maggio 1841 della «Rivista Europea», si dilunga nel confronto con testi a fronte alla luce anche dei fascicoli nel frattempo usciti, individuando «tre classi di mutazioni di parole e frasi» e concludendo che «tutte pertanto queste mutazioni fanno o più corretto o più efficace lo stile» e concludendo che «la lingua dei Promessi sposi è diventata più italiana di prima» (non senza una punta polemica per i sostenitori del tocco di fiorentinità).
Un confronto che nel corso dei decenni porterà addirittura due edizioni interlineari (di Riccardo Folli nel 1877, più volte ristampata; e di Lanfranco Caretti nel 1971) e che conoscerà un salto di qualità soprattutto col cominciare a curiosare di Michele Barbi e Fausto Ghisalberti tra i materiali preparatori, così approdando a una edizione considerata definitiva per le stampe correnti, senza le illustrazioni (restando invece di riferimento quella a cura di Salvatore S. Nigro nei Meridiani Mondadori per l’edizione originale in anastatica). Un’edizione comunque non pienamente convincente, come ben dimostra questa «edizione genetica della Quarantana» dei Promessi sposi approntata con dedizione certosina da Barbara Colli (pubblicata da Casa del Manzoni), nel dare conto del vero senso del lavorio condotto da Manzoni, non solo materialmente ma anche concettualmente, nella revisione dell’opera.
Perché il percorso che disegna, miniaturisticamente, l’ottimo quanto indispensabile lavoro di Barbara Colli ha il merito di portare il lettore dentro Manzoni. Due sono infatti gli aspetti che suonano quanto mai affascinanti nei contatti con un autore: entrare nella sua biblioteca, sia essa materiale (i libri di una sua personale biblioteca o quelli che viene richiedendo e ricevendo da amici e conoscenti), sia – ed è passaggio quanto mai intrigante – quella «mentale», ovvero quei testi che fanno capolino da una frase, una parola, un qualsivoglia semplice cenno lasciato cadere quasi anche con noncuranza. E girovagare nella sua officina: in quel suo concreto operare, nero su bianco, tra «scartafacci» che vanno e vengono, siano bozze, prove di stampa o altro ancora. Ed è proprio in questa edizione che è possibile verificare dove possa condurre una tal dedizione totale – di anima e di scrittura – di un autore come Manzoni, qui letteralmente pedinato in tutti i passaggi immaginabili e possibili che dalla Ventisettana si sono alfine depositati nella Quarantana.
Un lavoro cui Manzoni pensa da subito, poco dopo aver messo in vendita nel giugno 1827 i tre tomi dei Promessi sposi, cominciando a correggere il suo esemplare personale in vista della pubblicazione di una seconda edizione «corretta e accresciuta», come scriveva in settembre a Tommaso Grossi, salvo subito interrompersi nel 1828 e lasciarlo lì, fermo, per nove anni; allorché, tra il 1838-1839, riprende a lavorare a pieno ritmo in vista appunto di una nuova edizione per la quale pensa pure a delle illustrazioni, e che inizia a diventare visibile dal novembre 1840, data in cui inizia a consegnare alla tipografia di Vincenzo Guglielmini e Giuseppe Redaelli le prime delle 1136 pagine del proprio esemplare sfascicolato della Ventisettana su cui Manzoni interviene con numerosissime, fittissime correzioni, destinate a moltiplicarsi: perché lo stesso prosegue a fare sulle bozze in colonna (poche, ahimè, quelle conservateci), quindi alla sola superstite bozza impaginata, per via via distribuirsi attraverso le «circa 1.900 pagine delle prove di torchio», sulle quali talora si incontrano correzioni effettuate o proposte dai correttori della tipografia, sulle quali Manzoni si ritrova a manifestare il suo consenso o dissenso. Il fatto è che, nel suo lavoro di correzione, non c’è parola o segmento anche lungo o segno grafico d’ogni singola riga che Manzoni abbia risparmiato (di cui l’apparato dà conto con criteri di trascrizione conservativi), si tratti anche solo delle più varie interpunzioni o delle cosiddette eufoniche, o di apocopi o concordanze del participio passato, intervenendo sul tessuto fonetico, morfologico, ma pure sintattico e semantico nella puntigliosa ricerca della lezione adeguata. Ciò che comporta pure che Manzoni concluda il percorso recuperando qualcosa che in precedenza non l’aveva soddisfatto, sino alle cosiddette «identità tardive»: ossia tornando alla lezione originaria della Ventisettana dopo averla inizialmente cassata, cercando altre soluzioni, per poi tornare all’origine (ciò che mai risulterebbe dal sin qui attuato consueto lavoro variantistico).
È insomma un Manzoni tormentato da insoddisfazione e perfezionismo quanto l’apparato ci presenta.
Con correzioni che rispondono a precise esigenze: di tono, suono, risonanze interiori, come ben esempla il lavorio sul celeberrimo “Addio, monti”: dove lo sguardo di Lucia nella Ventisettana «scorse la sua casetta», quindi «la chioma folta del fico», e poi ancora «la finestra della sua stanza» viene inizialmente corretto con un «distinse» per tutti e tre i casi; salvo abbandonarlo per il definitivo «scoprì». Il motivo dell’abbandono? Una più appropriata distribuzione dei verbi percettivi, affidando a «scoprì» il senso della vista, e a «distinse» il senso dell’udito per ciò che subito segue in quello stesso brano: lo «scroscio» dei torrenti, «le voci», il «rumore d’un passo» (qui Manzoni riportando all’auditivo un originario «romore di un’orma»).
Un lavoro, quello di Barbara Colli, che mette dunque in crisi acquisizioni diffuse a proposito della prassi correttoria manzoniana, spesso riassunta nell’espressione «espunzione di idiotismi lombardi, decrescimento della letterarietà, introduzione dei fiorentinismi, riduzione dei “doppioni” linguistici», ma pure qualche lezione adottata nei Promessi sposi dell’Edizione Nazionale.
Un perfezionismo, quello manzoniano, che si riserva però misteri d’autore, difficili da sciogliere. Come quei mancati interventi a correggere quegli errori-contraddizioni che permangono nella Quarantana: come la doppia data della grida sui bravi del 5 e poi 15 ottobre 1627. Oppure il variabile numero di figli e figlie del sarto.