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 2024  agosto 27 Martedì calendario

Biografia di Giorgio Conte, fratello meno famoso di Paolo Conte

Capita a volte che certi cantautori, in vecchiaia, finiscano per assomigliare alle canzoni che hanno scritto. E così, a mano a mano che si sale sulle colline attorno ad Asti, tra villone riparate dai boschetti e strade sterrate che si aprono all’improvviso, l’orizzonte lascia spazio alla campagna, al profumo di rose non coltivate, al lamento gioioso di un cane, alle nuvole bianche e sode che si allontanano. E quando si arriva alla casa più bella, un’antica cascina rimessa a nuovo, non c’è traccia di prati pettinati o di steccati perfetti: ci sono cani dal pelo arruffato, fiori selvatici e un uomo alto, dall’eleganza ruvida, con i calzoni al ginocchio e la camicia aperta. «Ma sei venuta fin qui?», dice Giorgio Conte e sembra di finire in una delle sue ballate feline e sornione, piene di luna e cha cha cha, così diverse dalla raffinata malinconia (a tratti ermetica) che domina le canzoni del fratello Paolo. 
Mi aspettavo due gatti misteriosi e invece trovo due cani giocherelloni. 
«Due cani, una bambina (la nipotina Titta, ndr) e pure le pastarelle. Nelle domeniche astigiane sono parte del paesaggio domestico». 
Questa è la casa dove lei è nato e cresciuto, assieme a Paolo? 
«No, ma è una delle case della mia famiglia, quella in cui sono nato e cresciuto oggi non c’è più perché ci hanno fatto passare sopra la Torino-Piacenza». 
Che famiglia è stata la sua? 
«Una classica famiglia di notai: bisnonno, nonno, padre. Io ci provai a fare il notaio, ma niente da fare. Paolo nemmeno tentò l’esame, ma sai com’è, lui era già pronto per diventare Paolo Conte. Io ripiegai nell’avvocatura». 
È stato davvero un «ripiego»? 
«Perché non sono stato di certo un avvocato entusiasta, anche se sono stato un legale corretto, almeno questo mi hanno più volte detto i miei avversari. Ma la verità è che non avevo il coraggio di dire chiaro e tondo in famiglia “voglio fare l’artista a tempo pieno”, perché sapevo già che mi avrebbero rivolto uno sguardo pieno di disapprovazione, se non di disprezzo. E poi in famiglia di artista ce n’era già uno: Paolo ha quattro anni più di me, che ne ho ottantatré». 
Ma anche lui ha fatto l’avvocato. 
«Sì, perché in una famiglia come la nostra, notai colti e rispettabili, bisognava trovare una scappatoia al rigore, una via verso il piacere ma sempre velata di decenza. Papà amava la musica, suonava il piano, però restava sempre un austero uomo di numeri: le sue ferie erano “notarili” e forse è proprio da qui che viene quella speciale “allergia” alle vacanze che torna spesso nelle canzoni di Paolo, una sorta di “festa da subire più che da vivere”. Io no, io sono stato e sono diverso. A me piaceva andare in spiaggia, suonare la chitarra, baciare le ragazze, mangiare e bere. Chissà, forse è stato proprio perché mi sono ritrovato stretto tra le formalità della mia famiglia e l’estro più spinto di mio fratello che, per anni, ho temuto il palcoscenico». 
Eppure da ragazzi avete cominciato assieme, avete fondato una band jazz. 
«Mi chiamavano “il pupillo”, perché ero più giovane e mi intrufolavo alle feste, da me ci si aspettava che giocassi, mica che facessi sul serio. Però qualcosa la sapevamo fare e così le nostre canzoni cominciarono a piacere. A poco a poco componemmo per i grandi. I “fratelli Conte” diventarono un brand. Lei lo sa che ogni volta che Celentano si trovava in un momento di bassa marea si tirava su con uno dei nostri pezzi? Ancora oggi penso che se Azzurro non l’avesse cantata Adriano, ma solo Paolo, forse non avrebbe la fama internazionale che ha». 
Anche «La coppia più bella del mondo» è firmata Conte (assieme a Beretta e Del Prete). 
Sono uno di campagna, che coltiva pesche E parlo di cibo anche nei brani 
«Me lo ricordo come nacque quella canzone: Paolo girava per casa cantando trulì trulà, trulì trulà». 
Insieme avete scritto «Una giornata al mare». 
«Uno dei brani che mi rende più orgoglioso, un po’ come quando Mikhail Baryshnikov usò una mia canzone, Gne gne, in un balletto a New York». 
Poi, a un certo punto, le strade di Paolo e Giorgio si separano. 
«Sì, tutto avvenne senza traumi, ma come per un evento naturale. La musica stava cambiando, i fratelli Conte dovevano prendere un’altra direzione. Paolo si mise per conto suo, io continuai a fare l’avvocato e, allo stesso tempo, a occuparmi di musica. Ma qualcosa non andava. Sentivo che la mia vena creativa doveva avere il sopravvento. E anche questa volta, a decidere fu la vita». 
Come? 
«A poco più di cinquant’anni mi diagnosticarono un tumore al colon. Una cosa grave, mi diedero sei mesi di vita. Fu allora che mi dissi: adesso o mai più. Convinto di avere poco da vivere smisi di fare l’avvocato e decisi di fare solo l’artista. Mi rimisi a scrivere canzoni, ripresi i contatti, feci leggere i miei brani a diversi artisti. Cominciò così la vera vita di Giorgio Conte». 
Il fatto di essere fratello di Paolo è stato un incentivo o un freno? 
«Naturalmente un freno, perché qualunque cosa decidessi di fare, dal firmare una canzone a un concerto, c’era sempre chi ci vedeva un “artista al traino”. Ma non è stato così, anzi. Ci sono stati momenti difficili, però non mi sono mai perso d’animo. Anche perché alla fine il tumore non ha avuto la meglio su di me». 
Pur intrise della stessa ironia dal sapore elegantemente rétro, le sue canzoni sono molto diverse da quelle di suo fratello. 
«Molto e forse è per questo che oggi abbiamo due pubblici parecchio differenti tra di loro. Io sono amato in Francia, Germania e Canada, c’è anche chi rivede in me una vena alla Brassens, però io sono uno di campagna, uno che ama la Barbera e che coltiva le pesche, uno che si interessa dell’orto e che sa riconoscere un terreno sabbioso e poco adatto agli asparagi». 
A proposito di cibo, il suo brano «Cannelloni» è stato ripreso dalla serie «The Crown» su Netflix. 
«All’estero impazziscono quando sentono un italiano parlare di cibo con la stessa serietà con la quale parliamo di poesia. E a me piace mescolare l’Erba di San Pietro e l’amore». 
Con Paolo 
i contatti sono molto sporadici 
Ci siamo allontanati negli anni 
A proposito di amore, lei sta insieme a Michela da oltre cinquant’anni. Una donna bellissima (che, peraltro, in questo momento gioca in piscina assieme alla bambina): come l’ha corteggiata? 
«L’ho portata in cima a una collina piena di nuvole e quando si è voltata l’ho baciata». 
Sembra l’attacco di una sua canzone. 
«Il piacere, il gusto della vita, la musica, l’amore, il cibo: queste sono le mie canzoni e in fondo assomigliano alla vita che mi sono scelto. Pazienza se mio fratello è più elegante di me». 
Paolo, in effetti, è elegantissimo. 
«Qualche volta me lo hanno fatto notare. Io invece ho dovuto inventarmi un personaggio del tutto nuovo da portare in palcoscenico. Quando ho deciso di eseguire brani miei, non sapevo da dove cominciare. In testa avevo sempre il rigore del papà notaio e salire sul palco per esibirmi mi sembrava una cosa guittesca, un’occupazione disdicevole. Così un giorno, in Francia, feci un concerto senza curare troppo l’abbigliamento. Il giorno dopo sul giornale c’era una recensione in cui mi si paragonava a un idraulico capitato per caso in teatro. Sa che cosa rispondo io in questi casi? Che in famiglia, quando eravamo giovani, c’era un solo smoking e questo era sempre occupato». 
Però, Giorgio, lei è sempre stato più simpatico. Questo ha sedotto personaggi come Wilson Pickett, Mina o Ornella Vanoni. 
«Mina l’ho conosciuta tramite un’amica in comune. Quando andai a trovarla a Lugano la feci ridere tanto, perché facevo la sua imitazione, con una pronuncia cantilenante. Poi nell’album Uiallalla mise due mie canzoni, Il plaid e T.I.R.». 
E Vanoni? 
«Uh, una donna simpaticissima, potrei dire un’amica. Una volta, quando ero molto più giovane, mi convocò a casa sua. Ora, noi persone di campagna siamo usi a portare sempre un dono quando ci presentiamo a casa d’altri. La mamma mi suggerì di portare un cestino con quelle squisitezze che facciamo qui nell’Astigiano, che so il cacciatorino o il vino. Così mi presentai puntualissimo con il mio dono bene impacchettato. Ma rimasi senza parole quando Ornella venne ad aprirmi vestita solo dell’accappatoio. Immediatamente mi tornò in mente che lei, sotto il biliardo, ha un letto estraibile e feci cattivi pensieri, ma le sue parole, secche, mi riportarono con i piedi per terra: “Ragazzo, guarda che l’appuntamento era domani, mica oggi”». 
E così lei se ne tornò a casa con la coda, anzi, il cestino tra le gambe. 
«Diciamo che nella vita ho lasciato andare, con allegria, tante occasioni» (ride). 
Lei dice «il» Barbera o «la» Barbera? 
Quando mi diagno-sticarono un cancro smisi la toga e scelsi la musica 
«Quel vino è donna, perché ti seduce sempre, a ogni sorso. Io mi ricordo la Barbera che faceva mio nonno, mica era come oggi che ogni annata deve essere perfetta: all’epoca c’erano annate in cui il vino era buono e altre in cui non lo era. Ma andava bene così, e anche oggi cerco di prendere quello che di bello mi capita. Però non sono uno sconsiderato: una volta, in Canada, dovevamo andare da una città all’altra con l’aereo e il pilota si presentò ubriaco, rubizzo e con la fiaschetta nel taschino. Mica presi quell’aereo!». 
Giorgio, come sono oggi i rapporti con Paolo? 
«Non ci sentiamo tanto, anzi, lo facciamo abbastanza raramente. Non che ci siano stati contrasti, anzi. Ma semplicemente capita che persone che si sono amate molto poi si allontanino. Forse perché siamo tanto diversi, forse perché la vita ha voluto così. Ma c’è il passaggio di un libro di Carlo Sgorlon che recita: “Gli assenti prima o poi spariscono”. E oggi, ogni tanto, mi viene da pensare: chissà se per Paolo io sono sparito»