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 2024  agosto 27 Martedì calendario

In morte di Sven-Göran Eriksson

di Marco Cherubini
Sapeva che la fine era, oltre che nota, anche imminente. E l’ha affrontata con il sorriso e lo spirito di un vero gentiluomo. Sven-Göran Eriksson, piegato da un cancro inoperabile, se n’è andato a 76 anni lasciando, pochi giorni fa, un messaggio via social che è molto più di un epitaffio: «La vita riguarda anche la morte. Spero che mi ricordiate come un brav’uomo. Prendetevi cura di voi stessi e della vostra vita. Vivetela». I primi sintomi un anno e mezzo fa. Malesseri diffusi che lo costrinsero a dimettersi dalla carica di dirigente del Karlstad, terza divisione del campionato svedese, la sua ultima avventura legata al calcio. A gennaio la sentenza medica, col male che – aggredendo il pancreas – non lasciava scampo. 
E così, dopo qualche anno di oblio e scelte anche un po’ discutibili, Svennis – come era conosciuto da tutti – ha dato il meglio di sé. Non si è abbattuto, non si è nascosto. Anzi. Ha deciso che gli ultimi mesi di vita dovevano essere vissuti nel segno di una esistenza da cittadino del mondo, in nome e per conto del calcio.
Così ha chiesto al club che ha sempre amato, di poterlo allenare per un giorno. E a Liverpool c’è stata una meravigliosa standing ovation in suo onore in uno stadio mai suo: Anfield Road. E poi un giro d’Europa nel quale, ovviamente, l’Italia ha avuto una parte speciale. Sorrisi e abbracci alla Sampdoria, saluti e commozione all’Olimpico, sponda laziale, anche se la sua prima avventura italiana fu dall’altra parte del Tevere. Abbracci e commozione, ma mai pietismo. 
Il sorriso di Sven ha conquistato ancora una volta. Nella Genova doriana, con gli abbracci e le sciarpe blucerchiate accanto a Roberto Mancini. E poi quella Lazio che lui ha saputo far diventare grande, vincente e internazionale. Anche nella sua Roma biancoceleste, un oceano di ricordi, di sorrisi, di abbracci. Perché proprio in quegli anni la vita di Svennis cambiò.
L’elegante signore svedese scoprì un nuovo amore, Nancy Dell’Olio, e la sua immagine divenne pane anche per i paparazzi. Da Sunne, sconosciuta cittadina svedese, alle pagine dei rotocalchi. Un mix di glamour e competenza tecnica che lo condusse sulla panchina tra le più nobili al mondo, quella della nazionale inglese. E a Londra,la patria dei tabloid, la sua storia divenne quella di amori e tradimenti, quasi più importanti dei risultati del campo. Che non premiarono la sua nazionale dei Tre Leoni. Così, lentamente, ma inesorabilmente, tra un Manchester City lontanissimo parente del potente club attuale, la nazionale messicana e il Leicester (ante Ranieri), Svennis vagò per il mondo, tra i contratti sempre meno remunerativi ed una voglia di provare esperienze nuove. Fino ad un anno e mezzo fa, quando il suo stato di salute lo costrinse ad una pensione forzata. A gennaio la diagnosi implacabile. E la svolta clamorosa: andare per il mondo, sempre col sorriso e la voglia di accettare con coraggio una conclusione che non fosse triste e solitaria.
Celebrata anche da un docufilm che ha raccolto la ultima, bellissima, dichiarazione. Un testamento nel quale Eriksson chiedeva di essere ricordato come una brava persona. La grande consolazione per chi lo ha conosciuto e gli ha voluto bene, è che quel suo desiderio di essere ricordato come una persona a posto, corretta, onesta, diventa – in questa calda fine estate – una assoluta certezza. Il calcio mondiale perde un grande allenatore, un uomo per bene, che la malattia, spietata e puntuale, non ha trasformato. Sven-Göran Eriksson è stato, è e sarà sempre non solo una «brava persona», ma un grande signore del calcio mondiale.
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Alessandro Piperno
So che per ricordare Sven-Göran Eriksson nel modo giusto dovrei partire dal solito adagio: l’educazione, la temperanza, la signorilità così rare in un mondo sfrontato, passionale e scurrile come quello del calcio professionistico. So che per farne un ritratto adeguato dovrei soffermarmi sul riserbo scandinavo, il mix di ironia e eleganza cosmopolita che tra le molte altre imprese gli consentirono di diventare il primo commissario tecnico dell’Inghilterra privo di passaporto britannico. Se disponessi di maggiori competenze calcistiche, potrei persino soffermarmi sulle innovazioni tattiche apportate dal suo Göteborg dei miracoli.
Ma proprio non mi viene. Non ne sono capace. Per me Sven (non Eriksson, ma Sven) è l’allenatore simbolo della mia Lazio. Colui che regalò ai fortunati laziali della mia generazione sette trofei in poco meno di un lustro: tra cui il secondo scudetto, uno dei più rocamboleschi mai assegnati nella storia della serie A. Sperando che i tifosi delle tante altre squadre da lui allenate non me ne vogliano, per me, per noi, il nome di Sven-Göran Eriksson, il suo sorriso incantevole e gli occhi luminosi sono legati inestricabilmente a quegli anni di lussi sultaneschi e di trionfi sportivi. Per avere un’idea della potenza di fuoco di quella squadra è sufficiente sparare qualche nome a casaccio: da Bobo Vieri ad Alessandro Nesta, da Matías Almeyda a Pavel Nedved, da Diego Simeone a Juan Sebastián Verón, e soprattutto da Roberto Mancini a Sinisa Mihajlovic. E questa è solo una parte dell’armata di fenomeni che Sergio Cragnotti mise a disposizione di Eriksson. Dubito che un allenatore sprovvisto delle doti umane, del temperamento e dell’equilibrio di Sven avrebbe potuto tenere testa a un numero così esorbitante di fuoriclasse. E qui sì che occorre ricordare la sua proverbiale pacatezza. Sven era tutto fuorché un arruffapopoli. Era sempre sereno, sia nella vittoria che nella sconfitta. Pare che non abbia mai alzato la voce durante un allenamento e mai ostracizzato un giornalista sgradito e ostile. Se doveva dire qualcosa di sgradevole a qualcuno lo faceva con la sua voce suadente arrossendo come un peperone. Era bello tifare una squadra che oltre a vincere era rappresentata da un condottiero così inappuntabile, allo stesso tempo solare e serafico. 
Condottiero 
Era bello tifare per un condottiero così inappuntabile, sempre 
sereno e solare 
Niente più dello sport ti aiuta a comprendere quanto la felicità sia effimera. Se ripenso a quella stagione lontana, ai ragazzi del 2000 (soprattutto a Sinisa che non c’è più) e al loro allenatore-gentiluomo, stempiato ed elegante come un attore di Ingmar Bergman, avverto una strana vertigine. Mi guardo indietro e provo un senso di sconcerto e commozione. Ne è passato di tempo e nella memoria tutto mi sembra circonfuso da una lieve patina azzurrina dai riflessi ramati. 
Roberto Mancini 
Ciao 
Mister 
sei stato 
un allenatore straordinario e un uomo meraviglioso 

Ero allo stadio Olimpico quando qualche mese fa, prima di Lazio-Sassuolo, Eriksson è venuto a salutarci per l’ultima volta. Sapeva di avere le ore contate. Già visibilmente provato dalla malattia, bolso, paonazzo, con un filo di voce rotta dall’emozione ha snocciolato un discorso pieno di affetto e nostalgia ma privo di risentimento e di retorica. Ci ha detto grazie, tutto qui. Lo stesso grazie che qualche settimana fa ha rivolto a tutti noi invitandoci a non prendercela troppo e ad amare la vita. Mentre lo sentivo esprimersi in modo tanto semplice e garbato ho ripensato a quel bellissimo saggio di Michel de Montaigne intitolato Bisogna giudicare la nostra felicità solo dopo la morte. Ecco cosa dice: «Gli uomini, per quanta fortuna faccia loro buon viso, non si possono chiamare felici finché non si sia visto come hanno passato l’ultimo giorno della loro vita». Non posso sapere, nessuno di noi può, come il nostro Sven abbia trascorso le sue ultime ore. Ciò che so, ciò che sappiamo è che l’ultimo anno della sua bellissima vita è stato speso come meglio non si potrebbe immaginare. Nessun rancore, nessuna ostentata disperazione, solo un desiderio laico di comunicare ai tanti che gli hanno voluto bene la sua riconoscenza.
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Carlos Passerini
«Viveva come allenava: con stile e col sorriso». Dino Zoff ricorda così Sven-Göran Eriksson, che chiamò alla guida della Lazio nell’estate del 1997. L’ex portiere era allora presidente del club biancoceleste di proprietà di Sergio Cragnotti. Una scelta che si rivelò vincente. Anni gloriosi, di coppe e di campioni, rimasti impressi nella memoria collettiva.
Il primo incontro?
«Mi colpì subito per la classe, per la pacatezza. Aveva idee chiarissime, ma sapeva trasmetterle senza alzare la voce. Un gentiluomo della panchina. Mi mancherà».
Quale eredità lascia al calcio moderno?
«Leggeva le partite alla grande, ma era la sua forza mentale a colpirmi: la capacità di entrare nella testa dei campioni, facendosi rispettare senza imporre l’autorità».
E f uori dal campo?
«Un uomo sempre piacevole, di compagnia. Mi dispiace personalmente, è una perdita che mi segna. Non ci vedevamo da qualche anno, quando s’invecchia succede, la vita è così. Ma il ricordo delle nostre cene romane lo conserverò per sempre».
Quella Lazio segnò un’epoca.
«Era una squadra che abbinava bellezza e risultati. Aveva grandi campioni e un allenatore eccezionale che sapeva come far rendere al meglio tutto quel talento. Vinceva divertendo. E divertendosi». 
Il racconto della malattia ha colpito il mondo intero, andando anche oltre i confini del calcio.
«Ha vissuto la malattia con dignità e sorriso, sapeva che il suo momento stava arrivando. Ha fatto come sul campo, da allenatore, sdrammatizzando, trovando sempre modo di infondere tranquillità, serenità. Una lezione di vita, l’ultima, la più importante».
In una frase sola? 
«Ha affrontato la morte come la vita: col sorriso».