La Stampa, 26 agosto 2024
Alberto Mattioli recensisce The Butterfly Equation dell’austriaco Thomas Cornelius Desi
Mai come in questo centenario pucciniano (della morte: 1924) si è fatto tanto per ottenere così poco. Comitati dalle risorse finanziarie inversamente proporzionali all’evanescenza dell’attività, concerti celebrativi affidati a chi Puccini l’ha sempre eseguito pochissimo, “direttori” (in italiano: direttrici) di Stato che si proclamano eredi spirituali del Maestro, varie ed eventuali: niente di nuovo sul fronte pucciniano. Anche nei cartelloni operistici la presenza delle sue opere è stata perfino più massiccia del consueto: produzioni più o meno riuscite, di regola più meno che più, che però hanno raramente suggerito letture interessanti. Puccini resta ostaggio del puccinismo. La rivendicazione della nevrotica, sconcertante modernità del suo teatro novecentesco è ormai assodata dalla critica, ma stenta a penetrare nel comune sentire. Del resto, in un Paese dove il bello viene identificato nell’eterno ritorno del sempre uguale, della sedicente “tradizione”, anche Puccini pare condannato alla rassicurante ripetizione anestetica di un teatro che, in realtà, tutto è meno che rassicurante.Si stava quindi già per archiviare questo anniversario (con le dovute eccezioni, per carità) nella cartella del desktop delle occasioni perse, quando è finalmente arrivata una proposta convincente, per nulla emolliente e, vivaddio, nuova. Ci ha pensato l’Accademia Musicale Chigiana, al Teatro dei Rinnovati, con la prima assoluta di The Butterfly Equation dell’austriaco Thomas Cornelius Desi, un’opera da camera in collaborazione con i Musiktheatertage di Vienna, dove verrà esportata dopo Siena. Organico: cinque soprani, cinque pianoforti e un attore. Costui è Joy, atroce intrattenitore televisivo alla guida del The Butterfly Equation Contest, una specie di talent show destinato a rivelare la nuova Madame Butterfly. Joy si crede figlio di Kate e F. B. Pinkerton, nel frattempo diventato ammiraglio ed eroe di guerra (gli stronzi fanno spesso carriera) e le sue cinque candidate sono, in realtà, altrettante donne della vita di Puccini. Qui, ovvio, scatta per i puccinofili un quiz nel quiz, perché occorre sapere chi fossero la moglie Elvira, la sventurata cameriera Doria, la di lei cugina Giulia Manfredi, e le amanti Cory alias Corinna, Rosa Ader e Josephine von Stengel (così sono sei, d’accordo, ma – idea assai interessante – la stessa interprete è Elvira e la sua vittima Doria). Si presentano cantando una serie di variazioni su Un bel dì vedremo, con parole quasi sempre basate sull’epistolario pucciniano. Joy le scarta tutte, ma nella seconda parte la commedia muta in tragedia quando egli inizia a cercare in sé stesso le sue origini, fino a tornare all’ultimo abbraccio con la vera mamma, Cio-cio-san, quel fatale giorno a Nagasaki. Le cinque voci diventano allora un coro quasi madrigalistico, mentre i cinque pianoforti, che fino ad allora avevano suonato in maniera sostanzialmente tradizionale (e assai raffinata) iniziano a essere manipolati, graffiati, perfino percossi, producendo sonorità vagamente sciarriniane e sempre evocative, fino a un finale oggettivamente potente.Come sempre, conta però non soltanto cosa si fa, ma come. La cinquina di pianisti del Chigiana Keyboard Ensemble è magnifica; idem l’attore Giuseppe Nitti, davvero bravissimo; lo sarebbero anche i soprani se soltanto il loro italiano fosse un po’ meno barbarico. Lo spettacolo di Alessio Pizzech è eccellente: niente scene, bastano uno schermo e i pianoforti, ma tanto teatro, con una recitazione bellissima di tutti e idee sempre efficaci. Finisce con lui-Joy che diventa lei-Butterfly (e sulla diversa consapevolezza di sé maschile e femminile gioca con raffinatezza la regia) e ricompie il gesto fatale di mamma. Ora, il teatro deve emozionare, il resto è chiacchiera. E questo, in effetti, ti manda a nanna (riuscendoci: Siena risuona e ribolle dei postumi del Palio, fra gioie e dolori egualmente alieni e smisurati) con un bel groppo in gola e le giuste domande senza risposta. Un po’ come le nostre nonne veteropucciniane, quando uscivano dall’ennesimo sopranicidio commentando commosse: «È stato così bello, ho pianto tanto»