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 2024  agosto 26 Lunedì calendario

Biografia di Corinne Cléry

È in Italia da più di 50 anni, ma la sua erre non ha mai smesso di trillare. Così, con quella musicalità tutta francese nella voce, in un italiano peraltro perfetto, Corinne Cléry racconta il suo relax agostano. «Sono nella mia casa in Tuscia, con i miei tre cani a cui voglio un bene dell’anima. Questa zona è meravigliosa, il posto perfetto per ricaricare le batterie. È impossibile annoiarsi, ho sempre un sacco di cose da fare».
In questo momento, per esempio?
«Sto cucinando. Stasera ho una ventina di ospiti per cena».
Dopo tanti anni da queste parti si sente ancora francese?
«La Francia è il Paese delle radici, ma mi considero italiana a tutti gli effetti».
Forse era nel destino, il suo vero cognome è Picolo.
«È vero. Ma nonostante le ricerche non abbiamo mai scoperto chi fosse l’italiano in famiglia».
Perché ha cambiato in Cléry?
«All’epoca andava forte al cinema Michel Piccoli e i produttori avevano paura che il pubblico facesse confusione. Si decise per un cognome più morbido. Nessun motivo particolare, una semplice questione di suono. E volevano che iniziasse con la stessa lettera del nome, secondo il marketing era garanzia di successo».
Il cinema quando ha bussato alla sua porta?
«A inizio anni Settanta, dopo una sfilata. In prima fila c’erano i miei genitori, che mi scortavano dappertutto. Alla fine un produttore cinematografico li avvicinò per chiedere loro se poteva parlarmi. Per dirle che tempi erano: non ci si accostava a una ragazza senza il permesso della famiglia. Pensare che voleva solo propormi un film».
E lei?
«L’idea mi stuzzicava. Mio padre disse che se la cosa andava bene a me, andava bene anche a lui. Papà era così, mi ha appoggiata in ogni scelta della vita. Dunque dissi di sì a Histoire d’O».
Però il cinema l’aveva già fatto qualche anno prima, in Les Poneyttes.
«Se vogliamo chiamarlo cinema… Avevo 17 anni, era un musicarello con cantanti che eseguivano i loro brani e vip nel ruolo di sé stessi. C’erano Sylvie Vartan, Johnny Hallyday, Paco Rabanne».
E il suo futuro marito, Hubert Wayaffe.
«Lui era il protagonista. All’epoca era un mito, uno dei primi disc jockey europei. Conosceva tutte le celebrità della musica e del cinema, quando il suo programma Salut le copains andava in onda la Francia si fermava. Però a me non era simpatico, aveva un carattere burbero, mi canzonava spesso. Finché un giorno mi stufai e glielo urlai in faccia. Qualche mese dopo eravamo marito e moglie».
Tre anni ed era già tutto finito.
«Hubert è stato un marito e un padre assente. Quando nostro figlio a 11 mesi rischio di morire per un attacco di colera e salmonellosi lui non venne mai a trovarlo. Fu allora che decisi di staccare la spina».
Tornando a Histoire d’O, fu imbarazzante girarlo?
«Per nulla. In famiglia c’era una certa disinvoltura, noi donne eravamo abituate a girare per la casa in topless. Per me quello fu un film come un altro».
Quand’è stata l’ultima volta che l’ha visto?
«Mai. Non riguardo i miei film, so già che finirei per non piacermi».
Al mondo siete in meno di un centinaio a potervi vantare di essere state una Bond girl. Com’è successo?
«Il produttore della serie, Albert Broccoli, stava preparando Moonraker – Operazione spazio con Roger Moore e si era fissato che voleva me a tutti i costi. Feci rispondere di no, ma lui iniziò a martellare il mio agente al punto che cedette e gli diede il mio numero di telefono. Broccoli chiamò ma gli ribadii il mio rifiuto. Era sconvolto, non ci poteva credere che qualcuno snobbasse un film di 007».
Perché lo fece?
«Perché non mi interessava. E perché ero scema. Mi capitasse oggi ci andrei correndo».
Non finì lì, però.
«Macché. Abitavo già a Milano e Broccoli mi recapitò due biglietti aerei per Parigi. Voleva a tutti i costi parlarne di persona. Ci vedemmo in un ristorante sugli Champs-Élysées. Mi promise che se avessi accettato avrebbe lasciato il mio nome al personaggio e così fu: Corinne Dufour».
Che ricordo ha di Yul Brinner, con cui condivise una serie di Caroselli a metà anni Settanta?
«Pubblicizzavamo un brandy e mettevamo in scena di volta in volta degli sketch. Lui era un signore, aveva modi eleganti, persino un po’ di timidezza. Era un pezzo della storia del cinema, aveva vinto l’Oscar eppure non faceva la star. Non si atteggiava, salutava e chiacchierava con tutti. Per un po’ di tempo siamo rimasti in contatto, anche con sua moglie Jacqueline de Croisset, con cui aveva appena adottato due bambini vietnamiti».
Poi sono arrivati gli anni Ottanta e i ruoli nelle commedie dei (o alla) Vanzina: Yuppies, Via Montenapoleone, Rimini Rimini - Un anno dopo, Vacanze di Natale ’90. Che Italia raccontavano?
«Un posto divertente, dinamico, leggero. Un Paese in cui ancora si aveva una direzione e un’idea di futuro».
All’epoca erano considerati filmacci, oggi Vacanze di Natale e Sapore di mare escono al cinema restaurati. Una rivincita?
«Ma no, perché? Erano film divertenti, ma non è che fossero tutti ’sti capolavori».
Nel 1992, in Non chiamarmi Omar, la diresse il nostro Sergio Staino, scomparso lo scorso autunno. Com’era sul set?
«Ricordo le sue belle maniere, l’aria bonaria, il senso dell’umorismo. Era di poche parole ma aveva un’espressione sorniona, con gli occhi che gli ridevano sempre».
Negli ultimi 15 anni si è dedicata ai reality: Ballando con le stelle, Grande Fratello Vip, L’isola dei famosi. Che esperienze sono state?
«Divertenti, un modo per giocare. Lì non ci si annoia, si incontrano esemplari diversi di umanità, come il maestro pigro di Ballando con le stelle, che non aveva mai voglia di fare le prove. Alcuni programmi sono stati massacranti, come L’isola e soprattutto Pechino Express, dove andavo in giro con uno zaino da trenta chili. Da stramazzare. Mai più».
Ci tiene a definirsi anticomunista.
«Anche antifascista, se è per questo. Non mi riferisco al comunismo all’italiana, salsicce e birra alla Festa dell’Unità. Mi riferisco ai regimi totalitari dei Paesi dell’Est, che ho avuto modo di conoscere».
Quando?
«Nel 1990, sul set di Occhio alla perestrojka. Giravamo in una Bulgaria che era ancora Repubblica Popolare. Non eravamo autorizzati a fare nulla, non si poteva né entrare né uscire dall’hotel senza autorizzazione. Per telefonare a casa c’era un solo apparecchio nella hall, sempre con la fila. Feci una scenata al direttore, che alla fine mi installò in stanza un telefono rosso, proprio come quello che si diceva usassero Usa e Urss. È vivere quello?».
Cosa prova di fronte agli attuali scenari di guerra ?
«Ricordo quando negli Anni ’70 l’aereo di produzione su cui mi trovavo fece scalo in una Saigon sconvolta. Le bombe al napalm scoppiavano ai lati della fusoliera, quando siamo atterrati c’era una fila di donne con i bambini piccoli legati dietro la schiena, che si ammassavano sotto la scaletta chiedendo di essere portate via. Le guerre mi fanno paura e orrore, tutte». —