La Stampa, 26 agosto 2024
Le piccole storie nascoste nei condomini di Cesenatico
Questa è una piccolissima storia, così piccola che può stare tutta in una sola immagine, la fotografia di un palazzo; nemmeno un granché come palazzo, cinque piani appena, di buon cemento anni ’70 con le sue crepe e le sfaldature dell’intonaco, intonaco di un verdolino piuttosto bilioso che speranzoso. Il palazzo è ricco di balconi, ampi balconi, perché è costruito in riva al mare, in verità in riva alla spiaggia che il mare è un bel po’ in là, e è abitato per poterselo godere il mare anche senza dover scendere le scale. Il mare è Adriatico, il palazzo fa parte di un blocco di condomini e alberghi a tre stelle e anche a qualcosina in meno insediati nella parte meno pregiata, o la più disdicevole, della famosa città balneare di Cesenatico; Valverde, detta Kabul per via delle costruzioni in macerie disseminate lungo il suo viale principale. Le macerie appartengono alla defunta buona coscienza del vetero capitalismo novecentesco, sono le colonie marine che si sono prese cura del pallido rachitismo di almeno un paio di generazioni di figli della bassa forza industriale, me compreso, e ora non sono che spettri sdentati ansimanti da selve di sterpaglia che pateticamente custodiscono ancora il cicalare dei ragazzini messi in fila per bene con i loro cappellini aziendali e le braghette di maglina, arrossati di solleone e di nostalgia per la mamma, ingozzati di latte in polvere e cotognata, carnazza stufata e pastasciutta al ragù, ben rimpolpati e colorati a puntino prima di essere riconsegnati alle affettuosissime indigenze domestiche.Sono loro, e i loro figli e i loro nipoti, a popolare i condomini che dicevo, anche solo per una settimana, magari non proprio in alta stagione, e se hanno fatto un po’ di fortuna un appartamentino senza vista mare se lo sono potuti anche comprare; loro e i contadini della florida bassa che hanno oculatamente messo via il surplus al tempo del boom delle pesche nettarine, al seguito i loro figli che hanno fatto studiare e sono diventati dottori in qualcosa di importante, persino giudici e revisori di conti, o che hanno inventato una macchina nuova per seminare, o per impacchettare qualcosa come nessuno mai c’è riuscito, o un pispolo che senza quello l’uomo non andrà mai su Marte, e hanno tirato su un’officina e dall’officina un’impresa e dall’impresa magari anche un impero, e quelli la vista mare se la sono potuta permettere eccome. Sotto quei condomini sono parcheggiate fianco a fianco delle Panda prima serie e certi mostruosi Suv, Vespini e moto repliche GP, ma lontani dalle chiavi dei loro motori le facce, gli sguardi, le mani, l’intercalare, dicono che vengono tutti dalla stessa famiglia terrigna di servi della gleba redenti a braccianti, poi scarriolanti di bonifiche, mezzadri, contadini di centurie, infine quello che hanno voluto o potuto, ma pur sempre odorosi con vanitosa fierezza dell’inconfondibile afrore genetico del proletariato contadino; Kabul, la Grande Proletaria. Forse, e a starci attenti, cambiano un po’ i costumi quando il popolo scende in spiaggia, e finché non si bagna in mare e la mucillagine riveste ogni cosa del suo manto livellatore, si potrebbe notare che certi hanno la griffa che conta e altri no, ma vallo a sapere, qui nessuno si tira indietro quando c’è da fare la raccolta punti della Coop. Già, vanno alla spiaggia ad abbrustolirsi senza risparmio e dalla spiaggia si spingono in mare a raffreddarsi, ma se il sole non li spaventa, come potrebbe mai spaventarli il benefico dio che indora le messi, si avventurano in mare con la diffidenza dei contadini, e credo che l’impasto di alghe e mucillaggine che quest’anno fa del mare un infinito, placido, verdognolo coltivo, in fin dei conti li rassicuri, ci camminano dentro lasciando la scia netta e precisa di un solco, e è come vedere i loro avi che arano. E siccome starsene in vacanza è un duro lavoro che pretende un gran consumo di energie tale e quale i loro avi aratori, la dieta è la stessa, si avventano sui grassi suini vuoi sotto le spoglie di costolette, vuoi di pancette, vuoi di salsicce, con l’allegra voracità di chi non ha mai sentito in vita sua la parola colesterolo accompagnata da un aggrottar di fronte del medico curante.Voglio bene alla gente di Kabul e voglio bene a quei condomini che io stesso abito per intere due settimane senza mai soffermarmi a chiedermi che ci faccio qui, io ligure, uomo della riviera antipode. Del resto non ho bisogno di chiedermi niente, lo so bene di essermi innamorato di una romagnola e di essermi condotto agli sponsali aprendo un rigenerante, vivificante varco tra le culture, e come la mia sposa ha imparato a tuffarsi giubilante dagli scogli giù negli abissi, io ho imparato a trovarmi un posto là a un passo dall’infinito dove poter nuotare senza arenarmi. E sto ancora imparando qualcosa intorno al popolo; cresciuto come sono nell’idea romantica, militante, dottrinale di popolo, io che ne faccio parte rischio di finire per trovarmene distante, appagato da quello che penso di saperne, e qui il popolo è costantemente presente. È in vacanza e non si cela dentro i capannoni, gli uffici, le cucine, i retro, ma giorno e notte è presente, dilagante per le vie, le spiagge, il parchetto, i market, le baracchine della piada, in coda alla gelateria, marcia compatto verso il luna park inseguendo i suoi figli, rigurgita dai muretti e dalle panchine dove riposa sfinito, si affaccia ai balconi graziati dall’ombra, fa ressa la sera intorno all’aperitivo con ricco buffet nei dehors degli alberghi del tutto compreso, la notte balla senza sapere come si fa le mazurke suonate con dovizia da vecchi professionisti dalle orchestrine dei bagni di basso rango. È popolo che si fa carne e canotte, facce e ciabatte, occhi e sudore, braghette e borse frigo, allegria di quest’attimo di tregua e un ché di risentimento perché tra due o tre giorni sarà tutta un’altra storia, di nuovo a disperdersi da dove ognuno è venuto. Ma tutto questo non basta a volergli bene, se ho imparato a volergliene è perché ho imparato a riconoscermi tra loro; dei mille che incontro ogni giorno di nessuno so se vota e nel caso se vota come mi piacerebbe, non posso di certo metterci la mano sul fuoco che ognuno di loro sia senza colpa, non potrei nemmeno farlo per me, colgo sguardi antipatici, gesti riprovevoli, ma so che in qualcosa ciascuno di loro mi assomiglia e io assomiglio in qualcosa di tutti. Almeno qui tra la spiaggia, il viale e i condomini di Kabul, l’ovvio dell’umano si fa sottile sentimento, delicata coscienza, memento domine famulorum famularumque tuarum.E questa è l’immagine che vorrei regalarvi, mi piacerebbe che servisse a spiegarmi meglio, che dicesse qualcosa che fa fatica a star dentro un discorso, una fotografia che fa il buon lavoro che le compete. Una fotografia scattata alla facciata lato stradone del palazzo verdolino dove ho abitato, domattina lo lascerò, ma intanto io sono qui, sono ancora uno del civico 237. È fine agosto, la stagione declinante, si è fatto il crepuscolo a Kabul, è stata una giornata calda, ma non così calda come il resto del mese, appena 34 gradi, l’aria è ancora densa di acqua di mare liofilizzata, ma adesso si respira un po’ e tutto quanto l’universo condominiale sospira di sollievo, compreso il marciapiedi che si è finalmente liberato dal peso della forsennata calca dell’Assunta e ora si gode il solletico delle foglie dei platani ingiallite anzitempo e plananti alitate da un filo di refolo.Ecco, sono appena passate le dieci di sera, il bar gelateria Trudi mi chiama, è il momento Rabarbaro. Storia lunga quella del mio Rabarbaro, ha a che fare con la redenzione dalle dipendenze, diciamo che dopo molti traviamenti è l’unica sostanza ricreativa che ho deciso di consentirmi, con prudente aggiunta di molto ghiaccio e molto seltz, non acqua frizzante, ma vera soda; credo di essere l’unico consumatore di Rabarbaro nel raggio di centinaia di chilometri, Trudi ne tiene una bottiglia appositamente per me, Trudi è un vero barman, sa cosa sono le dipendenze e sa rispettarle. Ho il mio tavolino nel dehors, in quello a fianco una ragazza e un ragazzo; la ragazza parla, parla, parla, non sto origliando ma ascolto ogni cosa perché il suo è l’alto tono di entusiasta della narrazione, parla della sua vita, del suo primo amore, del suo ultimo amore, di tutte le disgraziate avventure di ogni suo amore, di quanto vorrebbe amare, di quanto poco è amata. Parla, parla, parla, e intanto il ragazzo ascolta e educatamente annuisce e carinamente le sorride intanto che sorbetta la sua birretta. Conosco di vista la Franca, la conosciamo tutti tra il bar e la spiaggia, è molto bella, è molto tatuata e molto apparisce, è facile notarla. So cosa succederà tra un paio di ore, quando le diventerà troppo difficile trovare ancora qualcosa da dire, eppure non c’è nulla di ovvio in tutto questo, nulla di triviale, non ce n’è nella troppa solitudine, nel troppo dolore del vivere, nella troppa fragilità; ha bisogno di compagnia la Franca per dimenticarsi almeno per un po’ di sé stessa, e nella sua esuberanza, nella sua sfacciata presenza c’è della infantile, sconsiderata innocenza.Ora, finito il Rabarbaro, davanti al portone incontro l’anziano signore del terzo piano, lato mare. Si dice che sia un vecchio giudice, porta le braghette con signorile distacco, è solitario, distante, ci salutiamo appena e non l’ho mai visto in spiaggia né al bagno nei tavolini dove gli anziani dei condomini si sfiniscono in selvagge maratone di burraco. Ai suoi piedi frugola naso a terra il suo vecchissimo bassotto e mi fermo a grattargli il naso, è il primo gesto di confidenza che mi prendo con i due, ma è l’ultima sera, un buon momento per un gesto. Il solitario mi sussurra all’orecchio, Pico è cieco sa, io sono qui a fargli da bastone. Se lo merita, dico io, e lo penso davvero, ogni essere amichevole se lo meriterebbe. Merita di più, di più, di più, sussurra ancora il solitario, ora rivolto non so dove di là da me e da Pico. Sono le prime parole che ci scambiamo, le ultime per quest’anno almeno.E adesso, intanto che nella penombra cerco il modo di convincere le chiavi di casa a farsi trovare, spazientito alzo gli occhi al balcone del primo piano, lato vicolo. E là incontro una cena a lume di candela. La Renata con il suo nuovo ragazzo. La Renata è in là con gli anni ma questa estate è rifiorita, e si capisce, è innamorata. La Renata è vedova da più di un anno, il suo uomo era un marinaio, un vero marinaio, burbero e odoroso di grasso di macchina e salmastro, se ne è andato con fatica, testardo, e la Renata lo ha accudito per anni, fino a ridursi a pelle e ossa, capelli scarmigliati, abiti stazzonati, casa andata a remengo, solo il suo gatto Armando a farle pensare a dell’altro. Ma adesso ha un ragazzo, adesso è lì con lui, e lui è grande grosso e in buona salute, persino più giovane di lei, che ha la sua permanente, un vestito un po’ osé, forse persino di seta. Mangiano in silenzio, lentamente, a ogni boccone che masticano alzano la testa dal piatto e si guardano, non riesco a vedere bene ma mi sembra che lui la guardi con ancora più trasporto di lei. Affacciato al balcone accanto ai due, le zampe poggiate al passamano della ringhiera tale e quale un cristiano, mi guarda incredulo di tutto questo il testone di un cane grosso come un manzo, lo ha portato in dote lui, poco male ha fatto sapere lei, con Armando va d’accordo.Quanto sono distanti la Franca, il solitario e la Renata? Poco, forse niente, sono un’unica scena, una sola fotografia. E io con loro un unico popolo, e almeno qui, in questa immagine così minuscola, così marginale, così insignificante ai fini di una qualunque indagine di una qualche utilità, equamente si spartisce quel po’ di tenerezza che ancora è consentita all’umano che contempla l’umano. Memento domine.