La Stampa, 26 agosto 2024
Massimo Giletti racconta di quando era nei boy scout
Diventare scout mi ha insegnato a rispettare la natura e ad ascoltare gli altri: ciò mi è servito molto nella vita e non l’ho mai abbandonato. «Procurate di lasciare il mondo un po’migliore di come lo avete trovato», scrisse l’educatore Robert Baden Powell, fondatore più di un secolo fa del movimento dello scautismo e del guidismo. Per me tutto ha avuto inizio nell’estate del 1972. Insieme a mia madre Giuliana ero andato all’Hotel des Bains di Venezia a trovare mia nonna Bianca Maria che, passeggiando nel giardino dell’albergo dove era solita trascorrere la villeggiatura, mi fece una proposta che mi suonò sorprendente. «È arrivato il momento che tu conosca gli invisibili». Domandai: «E chi sono?». Rispose: «Le persone che la società mette ai margini, gli ammalati e i poveri, in particolare quelli che in un paesino francese ai piedi dei Pirenei sono i protagonisti di una settimana in cui tu lavori per loro». Fu così che a settembre, a dieci anni, arrivò il primo viaggio a Lourdes insieme a nonna e mamma.Lì incontrai due gemelli torinesi, Roberto e Adriano Pavesio che appartenevano al gruppo scout Torino 24 della Crocetta. Immediatamente tra noi scattò una sintonia, una simpatia e fu proprio grazie a loro che entrai nel mondo degli scout. Fazzolettone bianco e rosso al collo, la divisa uguale per tutti, immancabili pantaloni di velluto corti anche quando faceva molto freddo, le maniche sempre rimboccate. Quella scout è stata la prima divisa indossata nella mia vita. Imparai subito che c’era un grande e unico obiettivo: incamminarsi lungo «un buon cammino». E così, stando negli scout, ho imparato a vivere e condividere tante emozioni. Un arcobaleno di colori che ancora oggi porto dentro di me. Camminare insieme mi ha trasmesso che negli scout il più grande ha la responsabilità del più piccolo. Ecco quindi che iniziai a comprendere come l’egoismo, il pensare e credere solo in se stessi non potessero essere il modo giusto di vivere.L’obiettivo era l’esatto opposto e cioè fare squadra, stare insieme, impegnarsi nel lavoro mettendo al centro l’attività del gruppo, vivere per l’inclusione, non per dividere o creare muri. Da quel momento cominciai a spartire con gli scout gioie, dolori, fatiche, emozioni. Un “idem sentire” che portò inevitabilmente ad acquisire codici mentali di riferimento capaci di fornire profonde chiavi di lettura del mondo che ci circonda. Non era facile applicare nella realtà questi insegnamenti, però era bello aprire il cuore per non appiattirsi nell’aridità sociale della quotidianità. Una testimonianza d’amore declinato in modo diverso dal consueto: dare senza nulla chiedere in cambio.È per un simile universo di valori ed esperienze che resti scout anche se non sei più dentro un gruppo. La vita apre mille strade diverse ma quei capisaldi non li abbandoni mai. Trovo significativo che nel messaggio inviato a Verona papa Francesco si sia rivolto ai responsabili dell’educazione dei giovani scout, evidenziando proprio la delicatezza e l’importanza del loro compito. Un’esortazione ad «accompagnare con sapienza» e a «sostenere con affetto» ragazzi e adolescenti. L’eco di una formazione di qualità che mette al centro l’ascolto e l’empatia