La Stampa, 26 agosto 2024
Il lato oscuro di Telegram
Quando nel 2013 Pavel Durov fonda Telegram lo fa con un obiettivo preciso: creare una piattaforma inaccessibile a qualsiasi tipo di ingerenza o controllo da parte di Stati e governi. Non una scelta casuale. Durov era stato appena costretto a vendere la sua prima società, il social VKontatke, il Facebook di Russia, a investitori amici del Cremlino. Decisione arrivata al culmine di pressioni e ingerenze esercitate da Mosca per ottenere informazioni sugli utenti del social. Informazioni che Durov si è sempre rifiutato di fornire. Telegram nasce come reazione al destino di VKontakte. La crea come app di messaggistica basata sul cloud capace di proteggere gli utenti dietro un totale anonimato. Possono fondare gruppi fino a 200.000 persone. Iscriversi a canali pubblici. Ma soprattutto scambiare messaggi e condividere contenuti senza alcun tipo di moderazione. L’anonimato dei contenuti è garantito da un sistema di crittografia rimasto finora segreto. Mentre la protezione da ingerenze da parte di Stati e governi era garantita da loro: Durov e suo fratello Nikolai. Telegram ha sede a Dubai. Si è guadagnata a ragione la fama di piattaforma della libertà. I suoi algoritmi di riservatezza sono stati subito apprezzati dai gruppi che vogliono tenere private le proprie conversazioni. Gruppi talvolta discriminati, come le comunità gay nei Paesi dove l’omosessualità è punita per legge. Ma anche gruppi criminali. È su Telegram che spesso si trovano le rivendicazioni dei gruppi hacker dopo che hanno messo a segno qualche colpo. È su Telegram che gruppi terroristici di matrice islamista fanno propaganda. È su Telegram che è possibile trovare organizzazioni che mettono in piedi truffe online. È su Telegram che si possono trovare materiali contraffatti, prodotti coperti da copyright, libri, film, materiale pornografico di qualsiasi tipo. La totale assenza di controllo e censura sull’app dei fratelli Durov affonda la sua matrice ideologica in una sorta di anarchismo radicale dell’internet della prima ora: niente moderazione, tutti sono liberi di condividere e accedere ai contenuti che preferiscono. La ricetta ha funzionato, almeno nei numeri: ad oggi sono 900 milioni le persone che usano Telegram nel mondo. L’app non ha pubblicità e si è retta per molti anni sugli sforzi economici dei Durov, lautamente ricompensati per il loro passo indietro da VKontakte. La società ha cercato per anni un modo per reggersi da sola: prima inventandosi una criptovaluta, poi avviando dei servizi con sottoscrizione. Scarsi i risultati finora e – sebbene non ci siano dati ufficiali – i conti sarebbero ancora in rosso. Ma l’app ha continuato a crescere. Anche in virtù del ruolo centrale assunto nella guerra in Ucraina. Dopo l’invasione russa del febbraio 2024, Telegram è diventata una fonte centrale di informazioni sulla guerra. La usano i politici di Mosca. La usano i politici di Kiev. Gli analisti definiscono Telegram un “campo di battaglia virtuale” per la guerra, dove i cingolati della propaganda di scontrano su un terreno non più cinetico ma digitale. Durov è stato spesso critico nei confronti della guerra. Di origini ucraine da parte di madre, ha condiviso in più occasioni messaggi di sostegno della popolazione ucraina. Intanto il suo social è diventato sempre più centrale nel racconto della guerra. Il 23 giugno 2023 Yevgeny Prigozhin, capo del gruppo Wagner, decide di dare il via alla rivolta delle sue truppe contro Mosca registrando un messaggio vocale di 11 minuti condiviso poi su Telegram – morirà due mesi dopo il fallimento del golpe. The Atlantic intanto incorona Telegram definendolo «L’app di messaggistica più influente al mondo». I media occidentali le riconoscono un potere enorme, in gran parte derivato da una ricetta di privacy ineguagliabile per le altre app. L’arresto di Durov cambierà il destino di Telegram. Non si sa ancora come, né in che direzione. Ma è certo che tutto il mondo digitale sarà costretto a ripensare il proprio rapporto tra libertà e governi centrali. A cominciare dai social, anche in Occidente.