La Stampa, 26 agosto 2024
Un’analisi della battaglia tra Israele e Hezbollah
Al di là delle roboanti dichiarazioni del leader Hassan Nasrallah, Hezbollah considera chiusa questa fase dello scontro con Israele. Dopo l’uccisione dell’alto dirigente Fouad Shukr il partito sciita libanese era obbligato a ribattere, pena la perdita della “deterrenza”, una sorta di equilibrio strategico con lo Stato ebraico che dura dal 2006. Ha ritardato la risposta per permettere ai negoziatori arabi di continuare a trattare sulla tregua a Gaza e lo scambio dei prigionieri. Ma allo scadere dell’Arabaeen, i quaranta giorni di commemorazione per la morte dell’imam Hussein, e con i colloqui al Cairo ancora in stallo, si è aperta la finestra per la rappresaglia. I segnali erano talmente evidenti che le forze israeliane hanno avuto facile gioco a smorzare la portata dei raid con bombardamenti preventivi.Il messaggio che arriva adesso da Beirut va invece nel verso di uno stop all’escalation, in questo momento. Dietro ci sono le valutazioni dell’Iran, il creatore e protettore delle milizie sciite in tutto il Medio Oriente. Il primo elemento che la guida suprema iraniana Ali Khamenei mette in conto sono le elezioni americane e l’influsso di Washington su Benjamin Netanyahu. L’Amministrazione democratica esercita un’enorme pressione sul premier perché non apra un nuovo fronte al Nord e si renda disponibile a una tregua di un mese e mezzo a Gaza che potrebbe garantire una campagna più tranquilla, sulla questione palestinese, a Kamala Harris. Una buona fetta del governo israeliano è convinta che l’occupazione, anche se temporanea, del Libano meridionale è inevitabile per mettere in sicurezza la Galilea e garantire il ritorno alle loro case a 60 mila sfollati. Le pressioni americane sembrano però aver causato il rinvio di questa operazione.Dopo le elezioni presidenziali Usa il quadro sarà più chiaro. Se vince Donald Trump Netanyahu avrà mano libera nel regolare i conti con Hezbollah e pure nell’annessione della Cisgiordania, come minimo la zona di confine lungo la Valle del Giordano. Con Harris presidente i margini di manovra saranno più ridotti ma va detto che il 7 ottobre ha posto la questione della sicurezza alle frontiere in maniera ineludibile. “King Bibi” e i suoi alleati vogliono risolverla così. Rioccupazione della Striscia con la creazione di un’ampia fascia di sicurezza attorno a tutto il perimetro, più due, tre grandi corridoi all’interno, presidiati in permanenza dall’esercito. A questo dovrebbe seguire l’annessione della zona di confine tra Cisgiordania e Giordania. Infine, invasione del Libano fino al fiume Litani per dare un colpo mortale alle milizie sciite.Teheran ha chiaro il quadro. Considera un suicidio il blitz del 7 ottobre di Hamas e sa che, anche se ci saranno una serie di tregue, alla fine il gruppo verrà annientato e la Striscia diventerà una sorta di mini Cisgiordania, con piccole aree urbane lasciate in mano a una qualche amministrazione locale disarmata. La sorte della resistenza palestinese è segnata ma alla guida suprema Ali Khamenei interessa per prima cosa sfruttare il traino politico e propagandistico del sostegno alla “causa”. Invece la sorte dell’Asse della resistenza sciita è importantissima. Hezbollah può sopravvivere all’invasione del Sud del Libano e sta già spostando asset a Nord, nella Valle della Bekaa. Agli ayatollah interessa soprattutto mantenere la presa su Beirut e approfondire il controllo sul Siria e Iraq, con l’obiettivo di spingere al ritiro le poche truppe americane rimaste. Per questo non ha appetito per una guerra aperta con Israele. Deve salvare la faccia. Ma senza escalation incontrollate