Corriere della Sera, 26 agosto 2024
Storia di Oussama Darkoui, di anni 22, morto il 5 agosto 2024 nel Cpr di Potenza
N on si può morire così. Non puoi abbandonare il Marocco che non hai nemmeno 18 anni, come hai fatto tu, Oussama Darkaoui, per inseguire il sogno di diventare un calciatore perché eri molto bravo con il pallone, tanto che ti chiamavano Messi, poi sopravvivere attraversando l’Europa per quattro anni e infine arrivare in Italia e morire proprio all’ultimo miglio, il 4 agosto 2024, a 22 anni e mezzo, a Palazzo San Gervasio, Potenza. In un Cpr, ossia un Centro per i rimpatri, che altro non è che un campo di detenzione. Partisti senza soldi in tasca e con solo un fagotto da Mouhammadia, 25 chilometri da Casablanca, nel 2019, all’inizio dell’era Covid. Raggiungesti Tangeri, scavalcasti la recinzione metallica del grande e moderno porto Tangeri Med e ti attaccasti sotto alla pancia di un camion che salì a bordo di una nave diretta a Tarifa o ad Algeciras, in Spagna. Qui, prima a Lugo, nell’estremo nord, e poi a Madrid, tenesti duro in due centri per immigrati – che tuttavia non sono come i nostri Cpr, sottratti persino alle norme dell’ordinamento penitenziario —, perché la tua meta finale era l’Italia, Sondrio, dove vive tua zia Massira, la sorella di tua madre Leila Harmouch, che ora non finisce mai di piangerti.
Dalla Spagna raggiungesti la Francia, Parigi, dove cercasti di sopravvivere lavorando in nero, ma ti fu presto chiaro che quella era una illusione, anche perché Parigi costava tanto, troppo. Allora, via, in Germania, a Berlino, in un altro centro immigrati, forse il migliore di tutti, visto che lì ti hanno anche curato un dente cariato, altro che gli psicofarmaci somministrati a forza ai detenuti dagli «italiani brava gente» nel Cpr di Palazzo San Gervasio. Dalla Germania, l’Italia era un po’ più vicina, bisognava solo attraversare la Svizzera, e tu riuscisti a percorrere anche quest’altra tappa, fino al confine con l’Italia e oplà, eccoti a Sondrio da zia Massira. Marzo 2024. C’erano da fare «solo» i documenti, perché non avevi il permesso di soggiorno. Ma bisognava avere la residenza, e per ottenere la residenza occorreva prima il passaporto, e per avere il passaporto ci voleva prima la carta di identità, mentre tu avevi solo il tuo bel foglio di identità di colore verde che non era sufficiente, e insomma tra comune, consolati, uffici vari e scale da salire e scendere, ci voleva tempo. E così tu dicesti a tua zia: «Devo lavorare, mandare un po’ di soldi a casa, mio fratello Mouhamed Amin ha perso un occhio in un incidente e ha bisogno di cure, mia madre ha una grave forma di diabete e ha bisogno di medicine. Mi hanno detto che ai mercati ortofrutticoli di Napoli cercano manovali. Vado lì e tu, zia, nel frattempo, provvedi ai miei documenti. Appena saranno pronti, torno a Sondrio e prendo la residenza».
Non hai fatto in tempo. Avevi appena inviato duecento euro a casa, i tuoi primi risparmi, che a Napoli ti hanno fermato. Clandestino. Irregolare. Non avevi nemmeno precedenti penali di alcun tipo, ma qui funziona così, per finire in un Cpr basta questa violazione amministrativa. E ti portarono subito nel Cpr di Psg, acronimo beffardo, che suonava come la famosa squadra di calcio parigina. Lì hai trovato la morte. Il tuo lungo viaggio, Oussama, si è concluso così, senza il lieto fine di «Io capitano», il film di Matteo Garrone, bello e poetico, perché la vita non è quasi mai poesia, e la tua, Oussama, di sicuro non lo è stata. Del resto, quanto vale una vita? A chi interessa di una vita qualunque? E sono tutte uguali le vite di ciascun essere umano? No. Purtroppo. Ma c’è la tua famiglia, tua madre Leila, tuo padre Abdellah, i tuoi fratelli Abdelhak, Mahdi e Mouhamed Amin. A loro di te interessa. Ai tuoi amici, quelli che ti chiamavano Messi, e alla tua città, Mouhammadia, di te interessa. Alle tv e ai giornali del Marocco, al governo, al re Muhammad VI, la tua vicenda interessa. Vogliono tutti la verità sulla tua morte. Sei il loro Giulio Regeni, purtroppo. E tutti ti aspettano, per salutarti con un giusto funerale e una degna sepoltura. Ma il tuo corpo, anche dopo l’autopsia disposta dai magistrati, che hanno detto di «non escludere l’omicidio», a venti giorni dalla tua morte, è ancora lì, in una cella frigorifera dell’obitorio dell’ospedale di Potenza. Si chiama burocrazia.
Senti cosa dice tua madre, Oussama. Abbiamo parlato con lei in videochiamata da Cuneo, dove vive Safaa, tua cugina, che ci ha fatto da interprete. Safaa ha trentuno anni ed è felicemente in Italia da venti. A Cuneo, Safaa lavora, ha due bambini, frequenta la moschea, come gli ebrei la sinagoga e i cristiani le proprie chiese (un po’ meno). Cuneo ha 56 mila abitanti e oltre settemila immigrati, cioè il 13 per cento, i quali per lo più fanno mestieri che gli italiani non vogliono o non sanno più fare. Quando Safaa ha saputo della tua morte, da Cuneo, con il marito e i due bambini, si è precipitata in macchina a Potenza. Da dove è tornata sconfortata.
La famiglia
«Ragazzi reclusi con lui ci hanno detto che è stato picchiato e poi abbandonato a terra»
Ecco perché era necessario ascoltare Leila, tua madre. La sua implorazione non è meno straziante di quella di Priamo affinché Achille gli restituisca il corpo del figlio Ettore. «Voglio il corpo di mio figlio – dice Leila —. Per favore. Vi supplico. Perché dopo averlo ucciso lo trattenete ancora lì in Italia? Oussama era un ragazzo molto buono, tutti gli volevano bene. È andato via da qui per aiutare la nostra famiglia, e invece ha trovato la morte. Una morte assurda, crudele. Chi lo ha ucciso ne risponderà davanti a Dio, ma la giustizia degli uomini, se esiste, deve dirci qual è la verità sulla morte di Oussama. Tutto questo è disumano. Dove sono i diritti umani di cui tanto parlate in Europa? Perché un ragazzo senza permesso di soggiorno finisce in un posto che è peggiore del carcere? Di una cosa sono certa, però. Oussama non si è suicidato. Nella sua ultima chiamata, il giorno stesso in cui è morto, mi ha detto che sarebbe uscito da quel centro il 20 agosto. Quindi il suicidio non avrebbe avuto senso. Ma se non si è ucciso vuol dire che lo hanno ucciso: ne sono sicura, lo sente il mio cuore di madre, e voglio la verità. Tutti noi qui vogliamo la verità».
Leila ha appreso della morte del figlio nella maniera più brutale. «L’ho visto in foto, morto, su Facebook – continua —. Hanno pubblicato quella foto perché qualcuno potesse identificarlo con certezza. Era l’8 agosto, quattro giorni dopo la sua morte. Non ho capito più nulla. Sono svenuta. Oussama era lì, in quella foto, con gli occhi chiusi, e io non potevo nemmeno abbracciarlo».
Tua madre e quelli che ti conoscevano, anche al Cpr, ti descrivono come un atleta, alto un metro e ottanta, dicono che non fumavi né bevevi, e che avevi tanta voglia di vivere. Ma Leila ci racconta anche un altro particolare allucinante. «Ho parlato con diversi suoi compagni di prigionia – dice Leila —. Mi hanno riferito che Oussama è stato picchiato selvaggiamente e poi trascinato via come un animale e abbandonato per terra. E che dopo tutto questo, forse per farlo rinvenire, gli hanno fatto una iniezione endovenosa, che però gli è stata fatale: lo hanno visto scuotersi e morire lì, per terra, con la bava che gli fuoriusciva dalla bocca».
Oussama è collassato nel pomeriggio del 4 agosto. Il giorno successivo, alle 17, ne è stato «constatato il decesso». Nessuno in quelle 24 ore lo ha soccorso. I magistrati stanno sentendo diversi testimoni, tra detenuti e personale del Cpr, e altri ne sentiranno. Soprattutto fra i 14 prigionieri che sono stati rilasciati – con provvedimento del questore Giuseppe Ferrari ben prima della scadenza dei termini di «trattenimento» – subito dopo la morte di Oussama e la rivolta nel Cpr che ne è seguita. Quei 14 si sono poi dati alla macchia, ma li stanno cercando, e qualcuno è stato già rintracciato. Sono tutti potenziali testimoni di «un omicidio che non si può escludere». Il tuo, Oussama.