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 2024  agosto 26 Lunedì calendario

La battaglia all’alba tra Israele e Hezbollah

KYRIAT SHMONA (Alta Galilea) Ieri mattina alle quattro Yohav Hermoni era di guardia con due altri riservisti all’entrata di Kibbutz Dan: «Le ore dell’alba sono le più difficili, sei sonnolento, stai già pensando che tra poco ci sarà il cambio e potrai finalmente andare a letto. Ma è stato allora che abbiamo visto il cielo illuminarsi di lampi dalla parte della schiera di colline che danno sul Libano. I rombi delle bombe erano perfettamente udibili. E in cielo i nostri caccia, tante scie luminose. Ci è stato subito evidente che non si trattava di una battaglia di routine», racconta questo 48enne che da civile fa la guida turistica, ma dal 7 ottobre è rientrato nei ranghi militari a difesa dei centri abitati dell’Alta Galilea. 
Le forze di Israele anticipano i piani d’attacco di Hezbollah, che colpisce. Nella base dei riservisti echeggia l’allarme. «”Attenzione! Tutti nei bunker. Adesso arrivano le Katiusce e i droni di Hezbollah”. E infatti l’attacco contro di noi è stato massiccio, ma lontano, per lo più intercettato dal nostro Iron-Dome e dagli altri sistemi di difesa. Già appena dopo le sei era finito tutto. Ma non ho potuto dormire per l’adrenalina. Da allora è ripresa questa calma apparente, che dura da 10 mesi e in verità da anni. Bisogna tornare ai 33 giorni di conflitto aperto dell’estate 2006 per trovare qualcosa di concreto. Oa siamo ricaduti nella guerra di attrito, che svuota le nostre città, tiene alta la tensione, ma in realtà non risolve niente». Lo dice quasi annoiato, e le sue parole già a metà mattinata sintetizzavano la situazione.
Ancora una volta Israele, Hezbollah e i suoi padrini-alleati in Iran flettono i muscoli, fanno la voce grossa, minacciano e però alla fine concludono poco. Ieri è stato l’ennesimo fuoco di paglia, senza conseguenze rilevanti, con i responsabili israeliani e il leader di Hezbollah a Beirut, Hassan Nasrallah, che si dicevano reciprocamente «soddisfatti» delle loro azioni, proclamando successi non verificabili in modo indipendente e però pronti a rassicurarsi a vicenda che non intendevano continuare l’escalation sino all’irreversibile. Il partito sciita legato a filo doppio ai pasdaran degli Ayatollah assicura di avere colpito la base di Glilot, vicino a Tel Aviv, dove è acquartierata l’unità 8.200 dell’intelligence militare, oltre a vari campi dell’esercito nella Galilea occidentale, per vendicare la morte del suo comandante Foaud Shukur, ucciso da un raid aereo israeliano a fine luglio. A sua volta Benjamin Netanyahu e i suoi generali affermano di avere distrutto centinaia di rampe e basi di Hezbollah in un raid che definiscono «preventivo». E chiariscono: «Avevamo informazioni precise di un attacco imminente. Siamo riusciti ad anticiparli». 
Ma le scarse notizie sulle conseguenze della vampata di violenza sembrano indicare che tutto sommato i danni sono stati limitati. O comunque non fuori scala rispetto alla media dello scontro a bassa intensità che si combatte dal 7 ottobre tra Galilea e Libano meridionale. Anche le vittime sono poche. Israele perde un marinaio imbarcato su un’unità che pattugliava la costa settentrionale, pare colpito dalla ricaduta dei missili antimissili. Altri due sarebbero feriti. Visto dal ministero della Difesa a Tel Aviv il vero problema resta che Hezbollah ha migliorato gli arsenali con missili inviati anche dalla Russia e droni iraniani rodati nella guerra in Ucraina. I missili anticarro 9MI33 Kornet pare siano micidiali. Si parla di oltre 150.000 di queste armi aggiornate e ieri ci sono state esplosioni a San Giovanni d’Acri e Nahariya: con il passare del tempo le città israeliane sembrano sempre più minacciate. Nasrallah parla del «primo stadio» della sua rappresaglia, promettendo che ve ne saranno altre, ma riservandosi di scegliere tempi e luoghi. Pare che anche i morti in Libano si contino sulle dita di una mano, forse solo tre guerriglieri uccisi. «Questa non è la fine della storia», replica da parte sua Netanyahu. 
Abbandono 
I centri dell’Alta Galilea sono quasi deserti: «Chissà quando si tornerà a vivere in pace» 
Insomma, pareggio e palla al centro. Si riparte da capo. Ma è proprio questo che gli abitanti della Galilea temono di più: il permanere dell’incertezza, che impedisce il ritorno alle proprie case e la ripresa della normalità. Abbiamo appena trascorso quattro intere giornate nella regione svuotata, paralizzata dall’emergenza. La richiesta dei pochi amministratori e addetti alla sicurezza rimasti è stata una sola: si ponga fine alla minaccia di Hezbollah e si torni a vivere. A Kfar Giladi, un piccolo villaggio a un chilometro in linea d’aria dal Libano, il responsabile a guardia delle case è il 41enne Nissan Zeevi, che ha creato un movimenti di pressione sul governo chiamato «Lobby 1701». Lui spiega: «Dopo la guerra del 2006 l’Onu promulgò la risoluzione 1701 che contemplava il ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani per limitare gli attriti con le nostre truppe. Ma nessuno la fa rispettare e così la guerra continua sulla nostra pelle. Dopo il 7 ottobre l’errore gravissimo di Netanyahu fu di ordinare subito l’evacuazione di tutta la Galilea, regalando la vittoria ad Hezbollah». 
Kibbutz e cittadine sono spettrali. Strade deserte, case abbandonate; negozi, uffici e fabbriche disertati. La cittadina di Kyriat Shmona contava 24.000 abitanti, oggi sono ridotti a meno di 2.000, per lo più dipendenti della municipalità e dalla sanità. «Le nostre comunità sono devastate. Il governo offre indennizzi, chiude le scuole in Galilea e le apre nel centro del Paese. La regione sta morendo, la sua economia è stata spazzata via, un vero deserto», spiega il 45enne Ariel Frish, addetto alla sicurezza della municipalità e responsabile delle scuole. Qui si trovava il fior fiore dei kibbutz agricoli fondati ai primi del Novecento, prima della nascita dello Stato: la popolazione media è ridotta al 10%. 
Però non tutti criticano Netanyahu per la scelta di evacuare. Spiega Frish: «L’ottobre scorso temevamo che Hezbollah potesse compiere raid in Galilea come quello di Hamas da Gaza. Non potevamo correre rischi. Prima di tornare, occorre sconfiggere i terroristi sciiti in Libano».