Domenicale, 25 agosto 2024
In morte di Alain Delon
A sospingere un giovane Alan Delon, quasi recalcitrante, davanti alla macchina da presa fu l’insondabile armonia della sua bellezza. Per niente candida, ma per questo più ipnotica, capace di nascondere nell’avvenenza qualcosa di misterioso e provocatorio che non escludeva un’ombra di imprevedibile femminilità. Per il cinema fu fin troppo semplice trasformare in coinvolgente carisma siffatto fotogenico stigma. Il primo a capire quanto gli fossero congeniali i ruoli in cui far rifulgere la sua ammaliante felina indolenza fu René Clement che in Delitto in pieno sole ne fece un meraviglioso Tom Ripley, capostipite di una serie di torbidi indifferenti in cui Delon si riconosceva volentieri. Seguito immediatamente da Visconti che all’opposto in Rocco, con coraggioso straniamento, seppe rintracciare nella preziosità del volto i tratti di un contadino lucano pronto, per riscatto sociale, a salire sul ring. L’intrinseco fascino avrebbe permesso a Delon d’essere dandy e duro, seducente e impassibile, ma senza dubbio alle delicatezze dei corteggiamenti l’attore preferì le contorsioni nervose degli eroi insolenti.
Non a caso risulterà più convincente laddove l’ombrosità, l’arcano o il velo dell’enigma prevalgono: febbrilmente ambiguo nella Piscina, torbido in M. Klein, impenetrabile in L’eclisse, melanconico nei capolavori di Melville (Frank Costello, I senza nome, Notte sulla città) – i più consoni a celare nell’ ascetico romanticismo del personaggio quello malcelato dell’attore. Non per questo Delon sfigurò in ruoli che domandavano sottigliezze come il principe Tancredi del Gattopardo e il supplente liceale della Prima notte di quiete o richiedevano tortuosità come il disertore del Ribelle d’Algeri, anche se non raggiunse mai l’intensità drammatica che l’avrebbe riscattato dal peccato originale dell’assenza di abnegazione.
Nella lunga seconda parte della sua vita artistica, facendo semplicemente leva sull’effetto della presenza schermica, Delon si tenne a lungo su un crinale che gli permise d’essere indifferentemente flic o voyou nella medesima alternanza con cui nella vita vera fu, con pubblica risonanza, più volte marito e amante, padre e padrone. Se nel cinema il rischio fu di parodiare se stesso (come intuì Godard in Nouvelle Vague) nella vita vera fu piuttosto di cedere alla conclamata voglia di un’esistenza urlata, anche se nelle tonalità di un urlo strozzato in gola. Nelle liti familiari, nelle frequentazioni pericolose, nell’esplosioni di maschio conservatorismo s’andava consumando quel desiderio d’affermazione patriarcale che non poteva essere appannaggio di chi da adolescente era stato più volte rifiutato, ed era cresciuto nei cortili di una prigione in attesa di partire, diciassettenne, volontario per gli orrori dell’ Indocina.