Domenicale, 25 agosto 2024
Per la prima volta le serie tv a Venezia
Con un nome così impegnativo, Mostra del cinema e non semplicemente festival, come l’eterna rivale Cannes, la rassegna del Lido si assume ogni anno la responsabilità di tradurre l’urgenza e carpire le istanze della società, promuovendone la spinta in avanti per onorare il nome della “Biennale d’arte” sotto cui si svolge da 81 anni. Venezia non può proporre solo pellicole più o meno autoriali, glamour o rampa di lancio per gli Oscar, come è accaduto più volte, da Gravity a Povere creature!. Ha il compito di fare “arte”, proprio come le manifestazioni sorelle del teatro, musica, danza, architettura, arte.
Soprattutto, deve captare le nuove tendenze. Quest’anno lo ha fatto dando alle serie televisive la dignità di stare sotto la prestigiosa sezione Fuori Concorso, dove si ospitano i grandi Maestri che non sono in gara (quest’anno da Avati a Bellocchio, da Burton a Francesca Comencini, Costner, Diaz, Kitano, Rohrwacher) e, a volte, film di cassetta che trascinano qualche vip in più sul tappeto rosso o rallegrano il cartellone. Si tratta di quattro serie televisive che non sono state infilate nel palinsesto come eventi straordinari e che di fatto godono di una vera e propria incoronazione. Disclaimer di Alfonso Cuarón, adattamento del romanzo La vita perfetta di Renée Knight, con Cate Blanchett, racconta le vicende di una giornalista che indaga le trasgressioni delle istituzioni, ma si trova a essere la protagonista occulta di un libro che mette a nudo i suoi segreti oscuri. Quali siano, lo possiamo immaginare dal battage pubblicitario che la vuole opera di erotismo estremo. Rodrigo Sorogoyen, autore del disturbante As Bestas, assieme a Sandra Romero e David Martín De Los Santos ne Los años nuevos fa ruotare dieci episodi intorno allo stesso periodo dell’anno: il Capodanno. Thomas Vinterberg in Famiglie come la nostra immagina un’eccezionale alluvione che costringe la Danimarca a evacuare il Paese, mettendo in esilio forzato i cittadini. Gli abbienti possono scegliere la meta, i meno fortunati devono affidarsi alle assegnazioni governative. E infine, Joe Wright narra per immagini la saga mussoliniana di Scurati in M. Il figlio del secolo. Regista di interni e di spettacolari teatralizzazioni, chissà se adotterà i colpi di scena di Anna Karenina o i toni de L’ora più buia. Per ora si sa che ha scelto di esprimersi in lingua italiana per una storia, ahinoi, tutta italiana con attori eccellenti, come Luca Marinelli nel ruolo del Duce, irriconoscibile nelle foto soprattutto per lo sguardo furbo e scuro, lontano dal solito macchiettismo mussoliniano. Si parte già bene.
Facile, si potrebbe dire, nobilitare le serie tv in una sezione ad hoc con registi e attori di questo calibro. E invece no, dietro c’è un’idea. Ormai è acquisito che le serie televisive non siano un prodotto di seconda categoria, facile e veloce. Registi, sceneggiature, interpreti possono valere ormai un biglietto in sala. Negli anni, scena per scena, si son conquistate la bellezza del grande schermo e oggi pretendono vasi comunicanti nell’universo del campo visivo. Chiedono una condizione di reciprocità: che non siano solo i film a passare dal grande al piccolo schermo. Anche alle serie deve essere concesso il privilegio inverso.
Venezia per prima ha percepito e “ratificato” un cambiamento nella fruizione del cinema. Se le serie televisive hanno allungato la durata dei singoli episodi, avvicinandosi a quella delle pellicole, i film più diffusi oggi, avverte il direttore della Mostra Alberto Barbera, sono quelli che durano poco oltre il minuto, fruiti su TikTok o YouTube, soprattutto in Cina durante gli spostamenti di lavoro o per motivi di studio. Questi minuscoli film sono comunque film. Ce lo suggerisce anche Nicolas Winding Refn che porta, sempre Fuori Concorso, uno spot pubblicitario di otto minuti e sfida il pubblico a pensare che questa non sia arte.
Tutte queste mutazioni ci dicono che non esistono regole, soprattutto di tempo nella fruizione dell’immagine, e che forse dobbiamo ripensare ai crismi cui eravamo abituati nell’andare al cinema. Non dobbiamo più attenderci durate di 90 o 120 minuti per film, ma abbandonarci a un evento da godere come un concerto o uno spettacolo teatrale, duri quel che duri. A Venezia Disclaimer ci intratterrà quasi 6 ore, Los años nuevos 7 ore e mezza, Famiglie come la nostra 5 ore e mezza, M quasi 7 ore. È?tempo allora di cambiare il concetto del nostro stare in sala, la testa e gli usi. Lo abbiamo fatto diverse volte e dobbiamo aspettarcelo ancora, da quando, 130 anni fa, nasceva la settima arte. Da allora la modalità e la percezione di fruizione di una pellicola sono mutate: da fenomeno circense ad ancella degli spettacoli dal vivo, fino a protagonista assoluta con varie evoluzioni. L’unica speranza per chi scrive è che la durata a piacere di una pellicola, che rivoluziona la programmazione delle sale, non sia a discapito del suo equilibro e della sua grazia con inutili ed eccessive deviazioni narrative, come quando ci si rammarica che in un libro, che poteva essere un capolavoro, ci siano cento pagine di troppo.