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 2024  agosto 25 Domenica calendario

La storia del settimanale Life

A differenza della vita vera, Life, il settimanale che portò il mondo nelle case degli americani, non ammetteva il caso. E se sul cofanetto che raccoglie due volumi di oltre trecento pagine l’uno per un totale di sette chili e mezzo splende a braccia aperte, divina e terrena, patriarcale sempre, la sagoma di Charlton Heston nei panni e barba di Mosè, la ragione dunque esiste. Precisa, illuminata perché cosa è mai Hollywood se non il Mar Rosso che accoglie i nostri sogni e aprendosi miracolosamente li porta in salvo, almeno per la durata di un film? E cosa siamo noi, chiusi nelle macchine di uno sconfinato drive in, se non schiere di fedeli che manteniamo in vita con il nostro amore l’età dell’oro del cinema, i suoi templi, le sue divinità? Immaginiamoli allora Benedikt Taschen e Reuel Golden, tycoon della sua casa editrice e l’altro curatore di tanti progetti, immersi in uno dei più grandi archivi fotografici della terra, a cercare le immagini giuste per ripercorrere la storia di Life dal 1936 al 1972, dal primo numero all’ultima uscita settimanale (oltre sarà mensile e infine nel 2008 chiuderà per sempre), raccontando insieme la storia del cinema americano, dallo splendore ipnotico delle origini alla disinvoltura della nuova Hollywood. Impresa biblica, non c’è che dire, eppure chi sfoglierà di seguito quei due volumi scultorei si accorgerà che il finale è grandioso e malinconico insieme, la polvere di stelle svanita anche per colpa della televisione che ammazza pure lo storico magazine, e la voglia nostra di tornare indietro è fortissima.
Perché splenda la luce accecante dell’epica hollywoodiana e perché Life ne canti le gesta in un rapporto di saldissima alleanza morale ed economica, bisogna risalire all’età de I dieci comandamenti, a quelle tavole della legge durissime, che ben prima di Charlton Heston, alias Mosè, e di Cecil B. De Mille, regista del kolossal biblico nel 1956, avevano scritto il destino di una delle più ricche industrie americane. Il primo numero di Life esce il 23 novembre del 1936, 10 cents per comprare la diga immortalata da Margaret Bourke White. Immagini straordinarie, doppie pagine in anticipo sul cinemascope, e testi cortissimi, «ribbon» li chiamano, un nastro che corre tra le fotografie e quasi le didascalie sono più importanti. Sei mesi dopo, il 3 maggio 1937, esce la prima di duecentotrentadue cover dedicate a Hollywood. In bianco e nero sotto la testata scarlatta, voltandosi verso il lettore-spettatore, che poi è la stessa cosa, sorride Jean Harlow, in tailleur, per strada, e il decalogo dei fotografi Life è già lì, non agguati da paparazzi, non le raffinatissime luci di studio cui si affidavano Edward Steichen, James Abbe e Clarence Sinclair Bull, per quindici anni fotografo di Greta Garbo, ma una aristotelica via di mezzo, tra reportage e set, tra spontaneità e copione. Copione da rispettare sempre, anche nella vita vera, visto che in quegli stessi mesi Jean Harlow avrebbe voluto sposare William Powell, ma Louis B. Mayer, il Mosè della Mgm, glielo impedì perché una blonde bombshell come lei non poteva essere una moglie. Così la legge del desiderio, così la tranquillità del focolare. Nessuna pagina di Life naturalmente aveva mai rivelato il meccanismo segreto che regolava la carriera delle star, né aveva raccontato per esempio che Judy Garland a diciannove anni, fresca sposa di David Rose, compositore e direttore d’orchestra, era stata costretta ad abortire perché la protagonista de Il mago di Oz, girato due anni prima, doveva rimanere un’eterna ragazzina e non certo una madre. Altro silenzio stampa, ma non sull’autore delle treccine che resero celebre il volto della Garland nel ruolo di Dorothy, e a Sydney Guilaroff, hair stylist delle dive, inventore anche del caschetto di Louise Brooks, nonché primo a vantare il suo nome nei titoli di testa, la rivista dedicò uno splendido ritratto.

Guardare tra le quinte, raccontare i piccoli e grandi artefici di ogni film, maghi di quella strana democrazia dittatoriale che è la vita sul set, e poi entrare nelle dimore sontuose dei divi e con il loro permesso spiarne la vita domestica, illudendo il lettore di essere l’invitato a cena più fortunato d’America, diventa la specialità di Life. Nel 1940 Vivian Leigh mostra il caminetto su cui ha appena appoggiato l’oscar vinto per Via col vento, Barbara Stanwyck, orfana a cinque anni e poi meravigliosa dark lady de La fiamma del peccato, posa accanto la piscina della sua tenuta a Northridge, Los Angeles, e ancora Marion Davies lascia che Loomis Dean, autore di cinquantadue copertine, fotografi un sarcofago romano che l’attrice e produttrice ha trasformato in mobile bar, solo magnum di Moët & Chandon, e poi, certo, Cecil B. De Mille accoglie Alfred Eisenstaedt all’ingresso della sua magione a Los Feliz, e se Eisenstaedt fosse ancora qui, se Life fosse in edicola sicuramente avremmo letto che quella stessa tenuta è oggi proprietà di Angelina Jolie.

Ma appunto così non è, e il perché lo racconta il secondo volume di questa bibbia hollywoodiana, che in copertina offre il volto e il corpo di Marilyn Monroe. Vero, John Dominis aveva seguito le corse in moto di Steve McQueen, storia ribelle sul numero del 12 luglio 1963, Bill Eppridge aveva ritratto Mia Farrow in cappa di organza Pierre Cardin, ventunenne sposa di Frank Sinatra e protagonista del satanico Rosemary’s Baby, e Alfred Eisenstaedt, di nuovo lui, era stato ammesso nella reggia di Robert Evans, ma nel 1969 l’ultimo produttore-leggenda, titolo The playboy peacock of Paramount, è ormai un nevrotico sempre al telefono che finirà arrestato per spaccio di droga. E Marlon Brando, che scandisce la cronaca di entrambi i volumi, occupando persino la quarta di copertina del primo, imbarazzato Napoleone nel film Desirée, che ne è di lui? Brando è l’inizio e la fine di Hollywood. La copertina del 10 marzo 1972, a un passo dall’addio editoriale, spetta al suo profilo trasfigurato in quello di don Corleone. Avevamo iniziato con Mosè, finiamo con un padrino. Altri tempi. Altre tavole della legge.

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