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 2024  agosto 25 Domenica calendario

Biografia di Valerio Adami, pittore, raccontata da lui stesso

Disegna e dipinge da più di settant’anni, ricorrendo a linee sinuose e contorte e a colori spesso acrilici, tanto da richiamare la cifra del fumetto. Ma so già che dire fumetto o evocare il mood americano degli anni Sessanta sarebbe come abbassare l’intensità e la forza dei lavori di Valerio Adami, la cui opera è in mostra a Milano, a Palazzo Reale, fino al 22 settembre. Chiedo all’artista, che compirà 90 anni tra qualche mese, se si riconosce erede della Pop Art. Ha un moto di fastidio nella voce: «No, no e poi no. Non mi sono mai identificato come artista pop. Se avessi disegnato una bottiglia di Coca Cola o un barattolo di zuppa Campbell stia sicuro che non avrebbero rappresentato i simboli di una società del consumo, ma quella precisa bottiglia e quel preciso barattolo, in relazione a un momento della mia vita». Dunque nella pittura di Adami non ci sono messaggi universali, appelli alle forze generaliste del bene e del male. C’è quell’irripetibile gesto che rende la pittura, come lui dice, «un fatto in azione». E mi spiego allora perché i suoi quadri siano così netti e prorompenti da apparirmi senza sfumature né profondità. Una pittura composta di decisioni, oltreché di pensiero e scrittura.

È stato sempre così netto e deciso? «Da bambino ero timido e schivo. Il che non mi ha impedito di sviluppare una passione per la pittura, per la letteratura ma anche per le automobili da corsa».

C’è una foto che la ritrae in una monoposto.
«Risale al tempo del corso da piloti che feci alla scuola di Modena di Piero Taruffi, campione di Mille Miglia e ferrarista. Sono trascorsi tanti anni. L’ultima macchina che mi sono divertito a guidare è una vecchia Porsche che poi ho dato via. Ogni età ha il suo mezzo di trasporto. Ora ho il mio bastone».

Le capita di pensare a com’era?
«Mi capita di pensare soprattutto ai grandi amici che non ci sono più».

Qualcuno in particolare?
«Emilio Tadini, Jacques Derrida, Luciano Berio. Li ho persi in un paio di anni, tra il 2002 e il 2004. Tre compagni di vita, di pensiero, di risate. Ricordo Berio, cuoco sopraffino, anche lui pilota impetuoso di macchine. Emilio, invece, grande raccontatore di barzellette, come Umberto Eco. Si rideva tantissimo. Perché gli intellettuali non sono solo seriosi».

E Derrida?
«Anche lui molto spiritoso, grande raccontatore di storielle ebraiche. Ci siamo conosciuti grazie a Jacques Dupin che gli propose di fare un’opera insieme a un pittore, una serigrafia in cuiconvivessero la pittura e la scrittura. Gli suggerì di rivolgesi a me. Jacques non conosceva il mio lavoro. Scoprimmo di avere molte cose in comune e un modo simile di creare. A lui mi ha unito un’amicizia personale e intellettuale che è durata fino alla sua morte».

A parte le barzellette, di Tadini che ricordo ha?
«Con Emilio ci siamo conosciuti subito dopo la guerra. È stato il mio più caro amico. A differenza di me, non ha mai lasciato Milano. Abbiamo trascorso insieme molto tempo quando eravamo giovani. Ma lui non era solo un pittore: era scrittore, poeta, giornalista e tante altre cose insieme. Fu uno degli uomini più curiosi e affamati di vita che io abbia mai conosciuto».

Il dopoguerra a Milano voleva dire soprattutto Brera e il Bar Jamaica.
«Soprattutto il Jamaica era il ritrovo di artisti affermati come Piero Manzoni e Lucio Fontana, ma anche di Balestrini, Bianciardi, Peverelli, Ugo Mulas, Alik Cavaliere, Franco Pardi, ma altresì di giovanissimi artisti come me, Recalcati, Romagnoni. All’epoca noi giovani non avevamo un quattrino; si scambiavano quadri in cambio di un pranzo. Ugo Mulas divenne poi un caro amico e conservo ancora le sue fotografie, bellissime, di me e mia moglie Camilla con il gruppo che andò alla Biennale di Venezia del 1968».

La sua pittura, in particolare i ritratti, penso a quelli che sono presenti nella mostra in corso a Milano, dedicati a Benjamin, Nietzsche, Mann, Leopardi, Stravinskij, tanto per citarne alcuni, sono un omaggio al pensiero che si declina anche attraverso l’arte.
«Sono stato profondamente influenzato dalla letteratura e dalla filosofia. Fanno parte di me, come il disegno e la pittura. Ho vissuto i grandi scrittori come padri spirituali e ho incontrato persone straordinarie. A parte Derrida, gente come Octavio Paz, Norman Mailer, Carlos Fuentes. I libri e la poesia, come la musica, sono tra i nutrimenti più grandi del mio lavoro di pittore. Molte parti del nostro corpo pensano e il cuore in particolar modo.Anche la mano pensa. Pensieri d’amore, di pietà. Il tatto conosce: la memoria e l’esperienza sono incise nella mano e questo in me muove la matita».

Oggi come appoggia la matita?
«Alla mia età il tremore, oltre a essere una categoria filosofica ed esistenziale, è anche una condizione della mano, che mi ricorda ogni giorno gli anni che ho. Mi viene in mente che Il pensiero del tremore era il titolo di uno dei seminari che abbiamo organizzato nella mia casa a Meina, con Jacques Derrida e Édouard Glissant. I miei ritratti “tremano” perché siamo esseri nati per la morte, è un tremore che è timore di chi trema per la sua mortalità o finitezza».

In un ritratto dedicato a Oskar Kokoschka lo definisce “il mio primo maestro”.
«Lo incontrai a Venezia nei primi anni Cinquanta. Avevo 17 anni. Andavo al Lido con i miei genitori e lui aveva esposto quel grande trittico, La saga di Prometeo, alla Biennale di Venezia (credo fosse quella del 1952). Era un artista che ricercava la verità nella pittura, cosa che ho poi cercato di fare io per tutta la mia vita. Fu Felice Carena a presentarmelo.Mi aveva chiesto di seguirlo come suo assistente in Svizzera, ma scelsi di iscrivermi a Brera e di diventare allievo di Achille Funi».

A Venezia ha conosciuto Ezra Pound.
«Facevamo delle lunghe passeggiate in silenzio alle Zattere. Pound mi impressionò molto. ComeKokoschka mi aveva reso evidente che la pittura non è solo pittura. ICantos di Pound mi hanno aperto a una visione complessa della spiritualità».

Tra gli artisti che sono stati un suo punto di riferimento ci sono Sebastián Matta e Francis Bacon. Due personalità molto diverse.
«Nel primo viaggio a Parigi nel 1952, in occasione del Salon de Mai, ho incontrato il poeta Édouard Glissant, che mi ha presentato Sebastian Matta e Wifredo Lam».

Si può dire che lei abbia trovato la sintesi: da un lato l’astrattismo di Matta e dall’altro il figurativo di Bacon?
«Certo i miei primi quadri possono evocare sia la pittura di Matta che quella di Bacon: ero giovane e stavo cercando la mia strada, la mia forma, la mia personale ricerca della verità che andava oltre l’astrattismo e oltre il figurativo. Ho sempre attinto alle mie memorie e alla realtà come a dei serbatoi, facendo uso dei viaggi, delle immagini dirette che mi colpivano e delle immagini indirette cercate e ricercate su riviste, libri, vecchi cataloghi. Ovunque c’è un’immagine umana, per me è materiale di archivio figurativo. Oggi questo archivio è nella mia mano».

Dove è nato?
«A Bologna. Della città di allora ho solo il ricordo della banda che suona il Requiem di Verdi ai funerali di Marconi. Avevo solo due anni. Poi siamo andati aPadova, dove abitava la famiglia di mia madre. E nel 1944 ci trasferimmo a Milano, la città che mi ha formato e di cui conservo i ricordi più vivi».

In quale famiglia è cresciuto?
«Nobiltà di origini marchigiane. Mio padre veniva originariamente da Fermo, dove ancora oggi si può visitare Palazzo Romani Adami, grazie alla cura che una nostra cugina ha messo nel conservarlo. Mia madre era di Palermo, la famiglia si chiamava Pellegrino, ma si erano spostati tutti a Padova. Mio padre aveva una piccola azienda di biancheria e costumi da bagno. Ricordo anche la zia Bianca, sorella di mia madre, insegnante di latino a Padova e i miei zii: un avvocato e un ingegnere. Insomma una famiglia non certo di artisti, ma tutti musicisti dilettanti. Ricordo mia madre al pianoforte durante i bombardamenti, era il suo modo per dirci di stare tranquilli. Come iniziavano a cadere le bombe lei si metteva al pianoforte per distrarci dal rumore delle bombe. Avevo poco meno di dieci anni».

Hanno scritto di lei, tra gli altri, il Nobel Octavio Paz, Carlos Fuentes, Tabucchi e Calvino. Qual è il suo rapporto con la letteratura?
«Mi sono nutrito di letteratura e molti miei quadri partono da lì. Con Italo Calvino poi ci fu una vera collaborazione, grazie alle sue favole scritte su alcune mie opere. Mi colpiva la sua scrittura visuale, nata da immagini mentali».

Anche il suo studio è pieno di immagini diverse.
«Il mio studio è un accumulo di oggetti, libri, disegni, fotografie. Non è disordine, è la mia vita stratificata. Ho aperto molti studi. Prima a Milano, poi a Londra, New York, Parigi, Arona, Meina, Monte Carlo, perfino sulla mia barca Saiph. Ho viaggiato tanto; sono sempre tornato a casa, a Parigi e a Meina, che considero il mio luogo del cuore. Oggi vivo e lavoro qui. E non viaggio più».

Cosa le manca del viaggio?
«L’arricchimento».

Ha frequentato spesso l’India. Cosa le hanno insegnato la tradizione e la cultura di quel paese?
«Nello spazio dell’arte occidentale, dove ho lavorato tutta la vita, il quadro è una finestra. Per l’arte orientale è diverso, non esiste prospettiva, non c’è linea retta, non ci sono trattati di anatomia che dicono come è fatta la figura umana. Dal punto di vista artistico non mi sono fatto sedurre dall’Oriente ma certo l’incontro con l’India ha segnato un punto di crisi. Quei paesaggi, Benares, il Gange che vedevo dalla camera che avevamo affittato, il luogo dove gli indiani vanno a morire.Questo rapporto con la morte, che è identico a quello con la vita, erano così diversi dal nostro Occidente che ha cancellato la morte o l’ha relegata a fatti storici come le battaglie, i massacri, eccetera.Io sono in costante dialogo con la morte».

La mostra e il catalogo sono idealmente dedicati a sua moglie Camilla scomparsa lo scorso anno.
«Abbiamo trascorso insieme più di 60 anni, abbiamo viaggiato in tutto il mondo, siamo cresciuti legati da un amore assoluto per l’arte e da due concezioni diversissime della pittura. Camilla era una straordinaria pittrice e disegnatrice, anche lei formatasi a Brera qualche anno dopo di me. La sua assenza è mancanza di una parte di me, quella più battagliera, sociale, curiosa. Il resto è vita privata che conservo nel cuore».

Nel 2025 compirà 90 anni. Che bilancio fa della sua vita e come vive la sua lunga vecchiaia?
«La mia vita di fatto è sempre stata ritmata dal lavoro, dal lapis, dal foglio, dalla tela, dai pennelli e dal rumore del frullatore che uso per miscelare i colori, o del phon con cui asciugo l’acrilico sulla tela; ogni giorno disegno e dipingo almeno per cinque o sei ore. Anche adesso. Vivo per il mio lavoro, che più che una passione è diventato una necessità».


C’è qualcosa che ha vissuto intensamente, un’emozione, un periodo, una circostanza che vorrebbe poter rivivere o che comunque conserva gelosamente?
«Le gite in barca sul Gange con mia moglie Camilla e l’incontro con la figura di Gandhi nel suo ashram di Ahmedabad».