La Lettura, 25 agosto 2024
I giovani cinesi tornano a vivere in campagna
La modalità più dolce della dissidenza ha bisogno di uno scenario adeguato. Il vasto lago Erhai si spalanca tra le montagne dello Yunnan, nel sud della Cina. Il Tibet non è lontano. La collocazione ai margini della geografia cinese e la sua storia di regni indipendenti hanno preservato sia la specificità religiosa della zona, con una variante tutta sua del buddhismo, sia etnica, con i Bai e altre minoranze. L’antica cittadina di Dali, affacciata sul lago, ha a lungo conservato tratti rustici che, quasi ovunque nel Paese, la modernizzazione ha piallato. Un’area discreta e protetta della Cina dove, per dire, il poeta Liao Yiwu, ora esule a Berlino, negli anni Duemila trovò riparo dalle ruvide attenzioni del regime, e non fu il solo. Chi visitò Dali negli anni Novanta la ricorda come una tappa delle rotte turistiche dei backpacker — zaino, mezzi di trasporto e alloggi spartani, banana pancake — che trovavano conforto, più che nell’acquosa birra locale, nella rigogliosa esuberanza della cannabis, venduta senza particolari cautele dalle contadine del posto.
Un’altra Cina. Una Cina che tuttavia negli anni Dieci del nuovo millennio s’è scoperta testimone di un fenomeno minoritario ma rivelatore: la migrazione di cinesi di città verso il lago Erhai. Lo sviluppo della Repubblica Popolare, dove dal 2011 la popolazione è in maggioranza urbana, ha cominciato a deludere alcuni dei beneficiari, esponenti della nuova classe media tra i 30 e i 60 anni che hanno tolto il disturbo per ricominciare altrove, nell’incomprensione delle generazioni precedenti. Alec Ash, scrittore in Cina dal 2008, si è trovato lì in mezzo scoprendosi coinvolto in una trama eccentrica rispetto alla narrazione dominante della Cina. Spezzato da una storia d’amore finita, Ash ha seguito i consigli di un amico fotografo e le suggestioni del passaparola, e il 18 gennaio 2020 è approdato a Dali da Pechino, deciso a disintossicarsi dalla vita di prima. Senz’averlo previsto, nel giro di un anno (quello del Covid) sarebbe stato in condizione di raccontare come si sia inceppato l’idillio tra la leadership di Xi Jinping e la borghesia, tra il «sogno cinese» e le aspettative di chi ormai non si accontenta di un benessere che viene vanificato dal vortice del lavoro.
The Mountains Are High, pubblicato nei Paesi di lingua inglese, coglie appunto il groviglio di motivi dietro il controesodo dalla città alla campagna di nipoti e figli di chi aveva compiuto il viaggio nell’altra direzione. Il sottinteso del titolo («Le montagne sono alte») è che «l’imperatore è lontano», secondo il vecchio adagio. Se, come scrive Ash, «Pechino non pareva piu l’hub di una nazione dinamica ma il fulcro di uno Stato di polizia», ecco crescere il numero di chi guardava altrove per liberarsi delle «tossine della vita di città che si accumulano nel fegato dell’anima». Il giovane scrittore inglese – il padre è lo storico Timothy Garton Ash – affitta allora una casa tradizionale in un villaggio e scopre un’umanità che in The Mountains Are High mappa senza ambizioni statistiche. Trova donne e uomini «venuti per essere liberi», che si danno un nuovo nome, attratti dalle good vibes, le buone vibrazioni di una «Dalifornia» dal clima mite. Alcuni della «classe media benestante», altri «lavoratori di città senza soldi». Come dice una certa Yaling, «ci lasciano fare le nostre cose», via «dallo Stato, lontano dall’urbanizzazione e dal capitalismo». Solo «un’altra falsa utopia?», si chiede l’autore. Forse sì, perché il «popolo nuovo» di Dali si divide in yuppy e hippy, e regna «una specie di reciproca invidia tra loro: gli yuppy aspiravano a una vita hippy; gli hippy si lamentavano di essere poveri».
Il microcosmo è di per sé un baco del sistema: mentre per la popolazione rurale la concessione di un permesso di residenza (hukou) in città ha regole codificate e burocraticamente improbe, «era così impensabile trasferire un hukou urbano in campagna che non c’era neanche una chiara procedura per farlo». Ash registra un «marcato tratto ambientalista» nella diaspora e raccoglie voci: di chi pensa ai figli e desidera (e organizza) scuole alternative, perché in città «vogliono creare bambini tutti uguali», e di chi recupera una dimensione spirituale (in fondo, «Gesù era un grande boddhisattva»). E girano acidi, certo, si fanno feste a tema, tipo «Dalirium», in «un gioco del gatto e del topo tra i party e il partito» (comunista). La politica-politica resta sottotraccia anche se il selvatico Tao dichiara che «Xi è impazzito... è come un imperatore... pretende d’essere un leader confuciano ma vuole solo controllare la gente».
È già politica l’andarsene, voltare le spalle al modello esaltato dal regime, è politica la scelta di Shonkar, della Mongolia interna, che a Dali può vivere apertamente la propria omosessualità e sposare come copertura una ragazza olandese conosciuta poche ore prima. Nella disillusione di tanti, Ash capta il sentore di «utopistici ideali socialisti» con persone che guardano «alla prima stagione comunista della Cina, ignorando gli orrori dell’era di Mao, rivelandosi nostalgici di un tempo in cui si era tutti uguali». Invece Vecchio Zhao, classe 1968, è scampato al massacro di piazza Tienanmen (1989). È lui a dire: «Non volevamo rovesciare il governo» ma «solo migliorarlo». A Dali distribuisce libri proibiti fatti arrivare da Hong Kong e Taiwan, perché «non ho mollato... sto cambiando me stesso e cambiare il Paese comincia da lì».
Alla fine la «valle dove tutto era possibile e ci si poteva nascondere dalla realtà» è un limbo affollato di paradossi. Perché è paradossale «cercare libertà in uno Stato non libero». E perché la gente di città «stava trasformando il carattere della campagna che ammirava». Ash lo fa capire: non esiste forse più un angolo della Cina dove la Cina non sappia arrivare.