Avvenire, 25 agosto 2024
La mafia araba prospera con la guerra
Nazareth - Amid e Tamer li cercavano da giorni. I parenti non si davano pace. «Forse li avrà portati via la polizia israeliana», pensavano senza ottenere risposta, come ogni volta che qualche ragazzo arabo sparisce. I due amici conoscevano gente che da queste parti va in giro armata e se i militari ti prendono non è detto che ne verrai fuori presto. Amid Abu Rukan e Tamer Kayouf sono riapparsi giorni dopo dentro a una buca. Sequestrati, interrogati, torturati, infine uccisi. Niente polizia e nessuna rivendicazione politica. Entrambi inghiottiti da quella che in Sicilia si chiamerebbe “lupara bianca” e che in Israele vengono annoverati tra i frequenti crimini commessi da gang criminali.
In tutto il 2023 nei Territori i morti ammazzati in questo genere di circostanze sono stati oltre 160, con un aumento del 40% rispetto all’anno precedente, quando al camposanto erano finiti in 109 secondo modalità inequivocabilmente mafiose. E con i casi registrati nel 2024 sono già più di 200 le uccisioni negli ultimi 18 mesi. Imprecisato è invece il numero delle sparizioni senza ritorno. Quella che sta crescendo all’ombra della guerra è una mafia pervasiva e potente che ha mutuato i metodi e le ambizioni dalle cosche italiane ma che tiene insieme bande israeliane e “famiglie” arabe. Secondo la polizia israeliana Amid Abu Rukan e Tamer Kayouf sono caduti nella trappola di un clan avversario, ma la parola “mafia” si fa ancora fatica a utilizzarla. «A Nazareth sparano ai negozi e poi dicono loro che hanno bisogno di “chawa” (protezione). È come il selvaggio West», ha ammesso chiaramente Peter Roshrash, un ispettore di polizia israeliano. In realtà non bisogna andare così lontano. La mafia siciliana ha affinato le tecniche di controllo del territorio e drenaggio delle risorse.
E il “pizzo”, imposto con il pretesto di offrire “protezione” è ancora uno dei mezzi più adoperati anche qui. Vengono prese di mira le attività economiche più redditizie. Le bande della mafia araba si fanno pagare 50.000 shekel al mese (circa 12 mila euro) per offrire lo scudo dei clan alle attività economiche. Gli esercenti vengono perseguitati con furti, auto rubate, pneumatici bucati a pugnalate. È il “messaggio” per chi non ha capito l’andazzo.
Solo quando i gangster entrano in contatto con il terrorismo, allora la polizia si muove in fretta. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, funzionari della sicurezza hanno avvertito il governo che i gruppi terroristici stanno cercando di utilizzare le organizzazioni criminali della comunità araba israeliana per compiere attacchi nello Stato ebraico. A nord di Israele, da Nazareth fino al confine con il Libano, le poche “gole profonde” assicurano che non è così. Ai boss non interessa attirare l’attenzione e mandare per aria gli affari per questioni politiche. Del resto i criminali comuni palestinesi hanno presto superato le barriere etniche mettendosi in affari con i clan israeliani. È una storia antica. Come quella degli Alperon, la “famiglia” israeliana che dai ruggenti anni ‘70 controllava un giro di sale da gioco, club notturni a Tel Aviv, riciclava proventi illeciti e si era specializzata nelle estorsioni. Non hanno mai smesso gli eredi del clan Jarushi e gli Abdel-Kader, che al campionario avevano aggiunto il traffico internazionale di droga. Un recente rapporto riservato della sicurezza israeliana è arrivato a denunciare una costante emorragia di armi che dalle unità di combattimento dell’esercito finiscono sul mercato dei gruppi criminali, compreso il letale “Matador”, un razzo a spalla anticarro di produzione locale. La guerra su Gaza ha cambiato le priorità. Solo poche settimane prima del 7 ottobre alcuni gruppi di arabi israeliani erano scesi in piazza per chiedere una sessione d’emergenza del Parlamento di Gerusalemme.
Il 22 agosto era stato ucciso Abd al-Rahman Qashou, direttore generale del Comune di Tira. Il 23 ad Abu Sna, sempre nel Nord di Israele, quattro uomini erano stati uccisi a colpi di pistola. L’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa attribuiva la guerra tra clan alla «diffusa disoccupazione giovanile e alla crescente diffusione di droghe illecite», oltre alla facilità con cui è possibile reperire armi e perderne poi le tracce. La strage mafiosa di Abu Snam tra le quattro vittime aveva colpito tre membri della stessa famiglia. Il più in vista era Ghazi Saab, 53 anni, che quella sera doveva annunciare la sua candidatura a sindaco. La famiglia Saab nei giorni del lutto disse di non avere niente a che fare con i clan: «Sappiamo solo una cosa: non sappiamo nulla».