Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2024
Cosa fanno i figli dei boss?
C’è chi a bottega dal padre mafioso ci è andato fin da piccolo, e come il genitore è finito arrestato e poi condannato, altri sono stati concepiti direttamente al 41 bis. C’è poi chi invece sceglie di sprofondare nell’anonimato per tagliare con le illustri parentele criminali, o altri che denunciano l’impossibilità di intraprendere studi universitari a causa di un padre ex ‘ndranghetista oggi collaboratore di giustizia. E poi c’è chi, pur figlio del mondo criminale, segue la strada della denuncia esplicita contro le cosche. E ancora figli che cresciuti mafiosi all’ombra di genitori capimafia si pentono, collaborano e incastrano la famiglia. Altri che, invischiati, scelgono il pentimento e convincono il padre a fare lo stesso. E infine ci sono coloro che con il nome del padre boss o con il nome del paese del clan fanno pubblicità a investimenti imprenditoriali.
Insomma il destino dei rampolli dei boss è vario e mai banale. Un fenomeno che coinvolge non solo le tre principali mafie (Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta) ma anche quel mondo della malavita, in particolare romana, che se pur non storicamente mafiosa con le cosche fa affari.
Il rampollo di Riina e i due badalamenti
Il caso dei figli della nobiltà mafiosa è tornato di attualità dopo il recente post di Salvuccio Riina, il più giovane dei figli maschi del capo dei capi, Totò Riina, morto all’ospedale di Parma nel 2017. Pochi giorni fa, dopo essersi sposato in gran segreto con una ragazza spagnola, è tornato a Corleone per la festa di nozze (200 invitati in Contrada Piano Scala) e qui ha postato una frase: “Buon Ferragosto a tutti voi da via Scorsone 24, 90034”, indirizzo storico della famiglia Riina. La strada però dal 2018 ha cambiato nome e ora si chiama via Cesare Terranova, in memoria del giudice palermitano ucciso da Cosa nostra il 25 settembre 1979.
I figli dei boss, dunque. Vito e Leonardo, ad esempio, figli non più giovanissimi di don Tano Badalamenti, boss di Cinisi morto nel 2004 e condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio dell’attivista Peppino Impastato. Con Vito e Leonardo, don Tano fuggì in Brasile sul finire degli anni Ottanta. Per 17 anni, dal 1995, Vito Badalamenti fu inserito nella lista dei più pericolosi latitanti, salvo uscirne nel 2012 per prescrizione della pena. Leonardo, invece, quattro anni fa è finito in carcere. Arrestato a Trapani su ordine della magistratura brasiliana per traffico di droga.
Gli eredi di Graviano concepiti in carcere
Ci sono poi quelli che la leggenda vuole concepiti direttamente al 41 bis. Come il caso dei figli (entrambi di nome Michele e incensurati) dei boss di Brancaccio Filippo e Giuseppe Graviano, condannati all’ergastolo per le stragi del 1993. Le mogli dei boss daranno alla luce i bambini il 26 giugno e il 13 agosto 1997, mentre i padri sono detenuti dal 1994. Un bel mistero sul quale la Procura di Palermo ha indagato senza però fare luce sul presunto “postino del seme” che avrebbe eluso le rigide ristrettezze del 41 bis. Insomma più leggenda che realtà.
I due Michele sono incensurati e, anzi, hanno studiato con profitto e ora sono due professionisti: il figlio di Giuseppe ha frequentato a Milano la facoltà di ingegneria industriale e ora lavora in una multinazionale che ha sede nel nord Italia, mentre il figlio di Filippo ha frequentato la Luiss di Roma e ora lavora nel campo della finanza.
Tutto vero invece il caso che anni fa coinvolse Angelo Provenzano, uno dei due figli del capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, morto nel 2016 e arrestato nel 2006 dopo ben 43 anni di latitanza. Nel 2015, Provenzano jr, che fu anche indagato per mafia e quasi subito archiviato, diventa lui stesso meta turistica. Esattamente così. L’idea di allora è di un tour operator di Boston che nel pacchetto del viaggio in Sicilia comprese lo stesso figlio di Binnu al quale i facoltosi viaggiatori potevano rivolgere domande su Cosa nostra e sul padre mafioso. In generale, va detto che Angelo ha sempre vissuto nella legalità.
E questo anche perché il padre fin da piccolo lo ha tenuto lontano da ambienti mafiosi. Angelo non lo ha mai rinnegato come genitore, tanto che nel 2005 a dieci mesi dalla cattura, intercettato, diceva: “Mio padre non lo voglio toccato, tinto, buono… è stato un buon padre, è stato un padre meno buono, è stato sempre mio padre e non lo voglio toccato”.
Molte meno sono le notizie relative al figlio minore di Provenzano, così come quelle del primo boss corleonese Luciano Liggio, arrestato a Milano nel 1974. Nel 2011 finì al centro di una polemica locale Roberta Bontate figlia di Giovanni e nipote di Stefano, il principe di Villagrazia ucciso nella guerra di mafia contro i corleonesi. Il suo nome divenne pubblico perché la signora lavorava presso una cooperativa legata alla Regione che allora si occupava di beni confiscati. In una intervista al Giornale spiegò: “È vero mio padre era un boss, ma io ho diritto di vivere in pace”.
I Giuliano e il “profumo” della figlia nunzia
In altri casi, poi, il nome della famiglia mafiosa o anche del luogo di residenza del clan è stato utilizzato dai figli per lanciare prodotti commerciali o attività imprenditoriali. È il caso recentissimo di Nunzia Giuliano, figlia di Carmine Giuliano ex boss di Forcella grande amico di Maradona e morto nel 2004. Sul suo profilo TikTok, Nunzia, del tutto estranea a contesti criminali, ha lanciato un profumo in omaggio del padre e che porta il suo soprannome: “’O Liò”, con il muso stilizzato di un leone sulla boccetta. In uno dei suoi tanti messaggi su TikTok, dove è seguita da circa 14 mila persone, Nunzia spiega che acquistando il profumo “state dimostrando tanto rispetto e stima nei confronti di mio padre, perché voi avete ricevuto rispetto da lui. Leggo bei messaggi, belle parole, frutto di quello che mio padre ha seminato. È scontato che io parli di un grande uomo, un grande papà, sono la figlia. Ma voi? Voi siete il popolo, la bocca della verità e leggere questi commenti per me è un onore”.
Nel 2019 finì sulle prime pagine dei giornali il caso di Lucia Riina, sorella di Salvuccio e figlia di Totò Riina, che nel 2018 ha aperto a Parigi un bistrot chiamato Corleone by Lucia Riina. L’avventura si chiuse però solo un anno dopo. La più giovane della famiglia Riina si giustificò così: “Non ho cercato di provocare né di offendere nessuno, volevo soltanto valorizzare la mia identità di artista-pittrice. E anche mettere in risalto la cucina siciliana”.
Sul fronte trapanese, Francesco Guttadauro, pur non essendo il figlio ma solo il nipote, è sempre stato il pupillo prediletto di Matteo Messina Denaro. Guttaduaro è infatti il figlio della sorella dell’ex primula rossa, Rosalia Messina Denaro e di Filippo Guttadauro. Nobiltà mafiosa, dunque. Il rampollo viene arrestato nel 2013 per mafia provocando lo sfogo del potente zio che in un pizzino diventato famoso scrisse: “Essere incriminati di mafiosità, arrivati a questo punto, lo ritengo un onore”. Lorenza, invece, classe 1996 è figlia del boss di Castelvetrano. Fino al suo arresto portava il cognome della madre. Tra i due il rapporto è sempre stato conflittuale. E solo dopo l’arresto, Lorenza ha chiesto e ottenuto di poter portare il cognome Messina Denaro.
C’è chi dice no e si dissocia dalle proprie famiglie
Ci sono poi quei figli della mafia che hanno scelto di combatterla e di dichiararlo pubblicamente. Veri eroi, come Antonio Piccirillo, quasi 30 anni, figlio di Rosario Piccirillo, boss della camorra con diverse condanne. Anni fa al Corriere della Sera aveva spiegato: “Sono figlio di un camorrista, ma mi fa schifo quella subcultura. La camorra è da buttare e schiacciare, anche se mio padre è stato uno di loro, è stato quello che si chiama un boss. E ora è in carcere, da anni. Io gli voglio bene, ma non lo stimo. Non sarà mai un amore totale. Lui lo sa. Ha capito. Dice anzi che solo questa mia svolta ha dato un senso alla sua vita buttata”.
E poi ci sono i figli dei boss che scelgono la via del pentimento e della collaborazione con la giustizia. Due su tutti, Emanuele Mancuso, figlio di una delle cosche più potenti della ‘ndrangheta, e Domenico Agresta, detto Micu McDonald. Quest’ultimo appartiene al cartello delle cosche della Locride insediate nel Nord Italia tra Milano e Torino. Nel 2022 deciderà di collaborare. Ai magistrati spiegherà: “Ho la sfortuna, dottore, di non aver scelto il mio destino. Sono nato in una famiglia in cui non c’è una persona, ma dico non una di numero, che da bambino avrebbe potuto portarmi via da quell’ambiente (…). Noi siamo tutta una famiglia, da Torino a Buccinasco a Platì. E tutta la mia famiglia è ‘ndranghetista. Per loro la ‘ndrangheta è vita (…). La scuola mi ha dato la conoscenza. La conoscenza mi ha fatto maturare delle consapevolezze, ho acquisito degli strumenti tali da fare delle scelte, non credere più nella violenza”. Micu deve fare i conti con la propria coscienza ma soprattutto con la propria famiglia. Il padre, Saverio Agresta, è nome noto alle cronache giudiziarie milanesi. Intercettato a proposito del figlio pentito dirà senza mezzi termini: “’Sto bastardo di merda ha voluto rovinarci”. Figli che si pentono, ma anche figli che convincono i padri boss a pentirsi. È il caso di Emanuele e Salvatore De Castro, padre e figlio. Entrambi siciliani, per anni sono stati legati alla ‘ndrangheta lombarda che si trova in provincia di Varese. Saranno indagati. Ma, spiegherà Salvatore in uno dei suoi primi verbali: “Sono stanco di questo stile di vita, soprattutto di quella di mio padre. Io stesso l’ho indotto a fare questa scelta”.
E così da qualche anno i due stanno guidando i magistrati milanesi all’interno del vero potere della ‘ndrangheta al Nord. Lo studio è spesso una salvezza per i figli della mafia. In Italia però capita che al figlio di un pentito venga preclusa la carriera universitaria. Lo scrive in una lettera nel 2020 il figlio dell’ex boss della ‘ndrangheta Luigi Bonaventura: “Vengo bollato come un mafioso pur non avendo mai avuto alcun coinvolgimento con le ormai passate azioni di mio padre”. Dirà poi il padre: “Il Servizio Centrale di Protezione (tramite il Nop) ci ha comunicato che la normativa impedisce a mio figlio di andare all’università della località protetta perché non possono oscurare i dati. Ma se va ad esempio in una località fuori provincia è rintracciabile e potrebbero ammazzarlo”.
La nuova magliana e i figli di Senese e nicoletti
Infine, fuori dalle mafie tradizionali, nel mondo violento della malavita, sono sempre più i casi di figli che, noncuranti dei destini carcerari dei padri, seguono le loro orme. Gli ultimi casi riguardano la criminalità romana. L’indagine Assedio ha ricostruito le dinamiche di un consorzio mafioso composto da elementi di camorra e ‘ndrangheta al cui vertice c’erano Vincenzo Senese e Antonio Nicoletti. Il primo è figlio di Michele Senese detto ’O Pazzo. Emissario della camorra a Roma, già in rapporti di affari con Massimo Carminati è ritenuto ancora oggi il vero re di Roma. Il secondo porta un cognome che arriva dagli anni Ottanta. Antonio Nicoletti, infatti, è figlio di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere della banda della Magliana.