Corriere della Sera, 25 agosto 2024
Il sacrario di Asiago è chiuso da un anno
«Tutta la popolazione della città martoriata ha salutato le spoglie degli Eroi che nella luce dei Leiten dormiranno in gloria imperitura...». Imperitura? Magari fosse onorato ancora oggi, come giurava quell’articolo del «Corriere» nel 1936, l’Ossario di Asiago che ospita i corpi della Battaglia degli Altopiani. Sono quasi undici anni che, già in abissale ritardo sulle onoranze del Centenario della Guerra 1915-18, una legge del 2013 stanziò 4 milioni di euro (scarsi, poi raddoppiati a causa dell’impennata dei prezzi) per gli «interventi urgenti di messa in sicurezza, restauro e ripristino del decoro» del Sacrario il cui degrado era già vistoso. Eppure, col viavai di sette governi (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi, Meloni) non è ancora arrivato, spiega il sindaco Roberto Rigoni Stern, un euro. Zero carbonella. E da oltre un anno il più visitato monumento dell’Altopiano, dopo la caduta di calcinacci che rischiarono di ferire dei visitatori, è chiuso. Un’offesa non solo ai nonni nostri, ma a quelli di tutti gli europei che stavano allora nelle stesse trincee sotto altre bandiere. Come fossero dimenticati. Rimossi.
Avete presente l’inferno di Gaza coi suoi quarantamila morti? In un fazzoletto poco più esteso di terre alpine (meno di 500 chilometri quadrati contro 360 della Striscia) morirono allora almeno 54.286 uomini, quelli dopo la guerra pietosamente raccolti e sistemati insieme, molti con un nome, molti ignoti, nel gran basamento dell’Ossario vicentino. Più circa millecinquecento militari britannici e del Commonwealth sepolti nei cinque cimiteri inglesi della zona. Più diverse migliaia di dispersi dei quali non fu possibile ritrovare i resti.
Certo, le vittime «civili» furono allora una minoranza. E il trauma della brutale evacuazione degli abitanti descritta da Emilio Lussu («Sull’Altipiano non era rimasta anima viva. La popolazione dei Sette Comuni si riversava sulla pianura, alla rinfusa, trascinando sui carri a buoi e sui muli, vecchi, donne e bambini, e quel poco di masserizie che aveva potuto salvare dalle case abbandonate al nemico. I contadini allontanati dalla loro terra, erano come naufraghi. Nessuno piangeva, ma i loro occhi guardavano assenti... I carri, lenti, sembravano un accompagnamento funebre...») limitò le stragi di civili. Per tutti però fu l’apocalisse. Che non sarebbero bastati decenni a sanare.
«Dopo 41 mesi di guerra Asiago, Gallio, Canove, Camporovere, Cesuna, ma anche Roana, Tresche Conca, Mezzaselva, Rotzo, Foza e, pur in misura minore, Enego, erano ridotti a un’immensa distesa di rovine», scrivono Vittorio Corà e Mario Isnenghi nel volume L’altopiano dei Sette Comuni edito da Cierre, spiegando che la relazione del commissario Raimondo Rava accertò «fabbricati interamente distrutti e resi completamente inabitabili» per una «quota del 95%». L’annientamento di un mondo.
Per i soldatini, trascinati innocenti in quella che papa Benedetto XV definì «una inutile strage», fu una mattanza. Scatenata da una propaganda di odio dove La voce del Piave, ricambiata da toni non meno bellicosi dei nemici, si spingeva a bollare gli austriaci così: «I loro cervelli nutriti di sangue sgorgante da corpi puri sgozzati per essere da essi divorati, si sono acuiti nella ferocia meccanica, intravedendo, con felino occhio, attraverso nubi venefiche e le lingue divoratrici di fuoco, il martirio e la strage. La loro crudeltà si è rallegrata nel grido straziante di bimbi che elevano al cielo i moncherini sanguinanti; nel pianto ininterrotto di resti di famiglie schiave; nel rossor pieno di lacrime di fanciulle condannate a partorire mostri...».
Eppure, ricorderà Ermanno Olmi, bergamasco di nascita ma asiaghese d’adozione, dedicando il suo ultimo e bellissimo film Torneranno i prati a una notte in trincea alla vigilia di Caporetto, che «c’erano due guerre: degli ufficiali e dei soldatini, dei borghesi e dei poveri». Di più: «C’erano trincee, su a Monte Zebio, separate da otto metri. Otto metri! Da qua a là. Si parlavano: “Come siete messi a legna?”. E stabilivano delle tregue perché gli uni e gli altri potessero andare a “far fagaro”, a rifornirsi di faggio per alleviare almeno le pene dell’inverno». Nel film un soldatino napoletano canta allo scoperto «Comm è bella a muntagna stanotte.../ Bella accussí, nun l’agg vista mai...». I «nemici» ascoltano incantati: «Bravo italiano! Bravo!» Non sparano. E lui riparte: «Fenesta ca lucive e mo nun luce...».
E se sull’Altopiano non si registrò il «miracolo di Natale» del 1914 a Ypres dove inglesi e tedeschi improvvisarono una sfida a calcio e «il pallone rimpiazzò le pallottole e per la durata di una partita l’umanità riprese il sopravvento sulla barbarie» (Kurt Zehmisch), lo storico Emilio Franzina ne La storia (quasi vera) del milite ignoto, ricorda vari episodi di «fratellanza» fra nemici. Come certi scambi natalizi tra una trincea e l’altra di pane e cioccolata e il racconto di un certo Biagio Zanetti che era stato emigrato in Vorarlberg e parlava il tedesco e un giorno «aveva spiegato: “Guardate che anche l’austriaco ogni tanto deve farsi sentire dai suoi ufficiali a sparare e a gettare delle bombe. Però, quando è il momento, farà un segno con la sigaretta. E voi allora, diceva ai nostri che andavano fuori all’avamposto, appena vedete muoversi la brace vi dovete inquattare e stare sotto per bene, perché vuol dire che sta per sparare”».
Lo stesso Emilio Lussu, in Un anno sull’Altipiano, racconta di un assalto suicida al Monte Fior poi ripreso da Francesco Rosi nel film Uomini contro: «D’un tratto, gli austriaci cessarono di sparare. Io vidi quelli che ci stavano di fronte, con gli occhi spalancati e con un’espressione di terrore quasi che essi e non noi fossero sotto il fuoco. Uno, che era senza fucile, gridò in italiano: “Basta! Basta!”. “Basta!” ripeterono gli altri, dai parapetti. Quegli che era senz’armi mi parve un cappellano. “Basta! bravi soldati. Non fatevi ammazzare così”. Noi ci fermammo, un istante. Noi non sparavamo, essi non sparavano. (...) Dalla nostra trincea, una voce aspra si levò: “Avanti! soldati della mia gloriosa divisione. Avanti! Avanti, contro il nemico!”. Era il generale Leone...». Fatto è che quanti coltivano la memoria di quella guerra nei libri, sulle riviste e online, si riconoscono nei versi di Osvaldo Ferrari sulla lapide del tenente Franz Strait ucciso a Cesuna, «figlio straniero qui morto/ tra fratelli di ora e di sempre/ che ti furon nemici/ solo nell’attimo supremo/ dell’incontro con Dio».
Questo ha di grande e struggente, spiega lo storico militare Marco Mondini, il Sacrario di Asiago: «I cimiteri della Grande guerra in Europa generalmente non “mischiano” i morti dell’una e l’altra parte. Francesi e tedeschi, per dire. Qui sì. A metà degli anni Venti, nella scia degli accordi postbellici e dello “spirito di Locarno” Mussolini ne fa una scelta politica: noi italiani siamo così generosi, avendo vinto la guerra in modo così schiacciante, che possiamo concedere all’ex nemico di essere un nostro fratello nella morte». Una «furbata» diplomatica? Anche. Certo è che quei soldatini fatti cozzare gli uni con gli altri, quelle «marionette nelle mani d’un burattinaio ignoto» di cui scrisse Paolo Monelli ne Le scarpe al sole, furono sepolti davvero insieme, sia pure in spazi diversi, nello stesso Sacrario. Ed è anche per questo che, in tempi di odio tra vicini in Ucraina, in Medio Oriente, in Africa, l’Ossario di Asiago, con i suoi morti affratellati, non può restare chiuso. Ci sono progetti «quasi» pronti? Partano, finalmente. Ogni giorno che passa in più è ormai insopportabile.