Corriere della Sera, 25 agosto 2024
I viaggi dei calvi a Istanbul per il trapianto low cost
«A voi miei signori io voglio narrare / la storia che tanto mi fa disperare / son già sette mesi che vedo cadere / dal capo i capelli pian pian. / Ormai son pelato, deluso, avvilito / non so quali cure adottar» (Quartetto Cetra, «Crapa Pelada», 1945).
Crape pelate al banco 28. No, non sono loro: troppo anziani. Allora quello spelacchio al controllo bagagli, in terza fila: ma no, troppo ragazzino. Forse è l’uomo agl’imbarchi col doppio avvolgimento di chignon: si vede benissimo che son ciocche riaggiustate... A Orio al Serio tutti i voli vengono al pettine e sul serio è complicato trovare il pelo nell’uomo: c’è coda al check-in di Bergamo, aspettando il check-up d’Istanbul. Coi nostri calvi ci siamo fatti la chat di gruppo, whatsappati i selfie, ma per due ore non ci distinguiamo in questa folla di turisti ordinari e turisti sanitari, low cost della vacanza e della speranza, tour all inclusive e cchiù pilu pe’ tutti. «Ciao, sono Gabriele», e ho un arcangelo per capello; «Piacere, Salvo», e son qui a salvarmi la chioma: partiti a notte fonda dalla Calabria profonda, mogli al seguito, finalmente li becchiamo assonnati in aereo, fila 24. Uno ha 31 anni, da dieci vive e vende macchine alimentari a Cuba. L’altro, 46: è un insegnante di sostegno e suona il sax. Non sono pelati-pelati, ecco perché non ci riconoscevamo, ma non è il caso di spaccare il capello in quattro. «È una vita che mi faccio i riporti», dice Gabriele: «Se son bravo, la calvizie non si vede. Però ci soffro lo stesso. Al mio paese si sono trapiantati tutti e ci pensavo da un po’. Un giorno ho rivisto un avvocato che m’è sempre parso un vecchietto arrabbiato. Coi capelli nuovi, è un’altra persona. Ha cambiato pure il carattere. Saluta, sorride». Salvo: «Alla mia famiglia l’ho detto all’ultimo minuto, quand’ormai avevo comprato il biglietto. No, non mi sono mai sentito da meno: l’unico complesso che ho, è quello in cui suono. Però lo sognavo, questo viaggio. Trapiantarsi fa solo parte della crescita personale, d’un percorso. Come quando ti fai un tatuaggio».
Parrucco col truccoÈ l’estate della ricrescita felice. E siccome si sta come d’autunno sui follicoli le chiome – sono sempre in agguato l’alopecia e l’ipotrichia e la tricoclasia e i mille modi scientifici di definire la pelata —, con la scusa delle ferie si va in processione alla Lourdes del bulbo, nell’ashram della pace tricologica, verso la Mecca del pelo. I charter sono strapieni che sembrano treni Unitalsi. Belli capelli ma radi, fronti spaziose ma corrugate, ex piastrati e chi ci ha dato troppo con tinte e impiastri, pian pian si presentano tutti. Gli arabi del Golfo: se sono glabri come un infedele – che onta! – ne approfittano per rifarsi anche la barba. I trans: se sono stempiati come un uomo, si ridisegnano golfi e anse frontali. E gli italiani, diecimila l’anno: se sono furbi come Cesare Ragazzi (do you remember?), si mettono in testa un’idea meravigliosa e si rifanno nuovi nuovi al prezzo d’una svacanzata a Bodrum. Aereo+hotel+autista+traduttore+analisi+trapianto+assicurazione a 2.300 euro, anche meno. E contro i 10-12 mila d’un medico italiano.
Dimenticate la cantatrice calva e certi miti di gioventù, il tenente Kojak e Yul Brynner, Arrigo Sacchi o Pantani. I grandi testimonial – Elon Musk ed Elton John, Brad Pitt ed Eva Longoria, John Travolta e Naomi Campbell – non si vergognano più di rivelare il loro parrucco col trucco. E anche in Turchia atterrano tremila trapiantabili al mese. Famosi: Cristiano Ronaldo, Ryhad Mahrez, Calum Best. Noti: l’ex allenatore di Donnarumma e un paio d’attori di Gomorra. Irrivelabili: le nuove star di OnlyFans, la solita influencer a scrocco, un importante politico di centrodestra che però ancora esita, «perché poi vado in tv e finisce che mi prendono per il culo come Antonio Conte col gatto in testa e Berlusconi col toupet».
In volo, Salvo e Gabriele s’addormentano. Noi siamo al loro seguito, Professione Riporter, e ne approfittiamo per documentarci un po’ sulle ricostruzioni classe economy. In principio, erano Casablanca dove si cambiava sesso e Caracas per il silicone nelle tette. Preistoria dell’umanità rifatta. Oggi il Marocco teme i jihadisti, il Venezuela ha i chavisti, e nessuno investe più. Meglio altrove: il Belgio per diminuire la pancia, l’Irlanda per restringere lo stomaco, la Polonia per gonfiare il seno, Praga per rifare il naso, la Croazia per lucidare la dentiera, la Bulgaria per pulire le carie, la Thailandia a sbiancare l’ano. E la Turchia che ci ha preso per i capelli: fa due miliardi l’anno d’indotto e ha centinaia di cliniche sovvenzionate nel quartiere Fulya, che a Istanbul chiamano Saglik Vadisi, la Valle della Salute: reception moquettate e Lamborghini posteggiate, eliporti sui grattacieli e chirurghi dall’America.
Fasciati e velateI tricologi dicono che abbiamo ciascuno un tesoretto di centomila capelli ed è normale perderne ottanta, cento al giorno: di più, no. Eppure cascano all’80 per cento degli uomini e al 40 delle donne: lo stress, l’abuso di farmaci, un cosmetico sbagliato, una febbre, un ormone, la tiroide, un’anemia, il ferro, lo zinco, una proteina, la genetica. Anche le canne, «e con voi italiani è un problema, perché ve le fate tutti e dappertutto». O semplicemente l’a-chi-tocca-tocca: in ogni caso, l’uomo del destino è il venerato maestro Serkan Aygin, il profeta del ricciolo d’oro, un dermatologo pioniere che vent’anni fa riprese la tecnica giapponese dell’autotrapianto detta Fue (Fullicolar Unit Extraction), fiutò l’affarone, lo suggerì a Erdogan e s’è arricchito fino a diventare lo sponsor del Napoli. La genialata d’Aygin è che il capello non è più solo un orpello, «l’uomo nasce e muore senza denti, senza capelli e senza illusioni» (Alexandre Dumas), è anche un tema politico: mica per niente, il Crapa Pelada cantato dal Quartetto Cetra nacque per sfottere Mussolini. Da Santa Sofia alla Moschea Blu, i fasciati delle cliniche s’aggirano fra le velate dell’Islam e bisogna pur guardare che cos’ha in testa la gente: esiste un linguaggio dei capelli, spiegava Pasolini, «ciò che fisicamente e ontologicamente dicono i nostri capelli», e chissà perché la retorica è sempre dei parrucconi, le chiacchiere moleste sono del barbiere, i pettegolezzi scemi della petineuse.
Passaparola«Io sono entrato nel business molto dopo il dottor Aygin», racconta Mert Karakuzu, 35 anni, un curdo di Malatya: sbarcò per un Erasmus all’università di Cosenza e s’inventò «Estetica Istanbul», una delle decine d’agenzie che portano i clienti dal meridione. «Al Sud ci tengono molto di più, ai capelli». Mert ha venti dipendenti e una rete infinita d’hair stylist, d’agenti, di collaboratori, un passaparola che censisce le teste più lucide d’Italia e le spinge alla fuga dei capelli. Non cura la calvizie, ma promette chioma e autostima a chi pensa che solo il pavimento possa fermare la caduta. «Metto i cartelli nei negozi, do una percentuale a estetiste e parrucchieri, vado porta a porta, Instagram, i call center. Spiego a tutti che modificare il corpo è un desiderio innato: lo facevano le tribù africane, gli egizi, gli aztechi. Ormai il trapianto è un fenomeno di massa: fra mille anni, apriranno le tombe e troveranno scheletri capelloni». Mert s’è dato un limite: «Ci sono l’Albania e la Tunisia che si fanno sotto, i loro prezzi sono competitivi: nel 2030, non so se il capello sarà ancora un business solo turco. La nuova frontiera è l’allungamento delle ossa, le staminali: nella Valle della Salute, in pochi mesi t’alziamo di 15 centimetri. E senza viti, senza dolori. Mi sto preparando. Ho già molte richieste dal Messico e dalla Cina».
Vedi Istanbul e poi pettinati. Alla Med Life Clinic, in un palazzone ripieno d’ambulatori, in un alveare d’insegne «estetik & obezite», ci aspettano per le sette e mezza del mattino. Salvo ha fatto una bella colazione. Gabriele no: è pallido. Il dottor Ahmet Tosun ha quindici anni di mestiere e ventimila scalpi in curriculum. Sarà lui a cesellare: «Allora, che cosa volete? Una mezzaluna? Una riga verticale? Una riga più femminile?». Salvo tira fuori la foto della patente vecchia di vent’anni, «ecco, vorrei tornare così», la moglie gli dice se è sicuro, «va bene, diciamo che non voglio un’attaccatura troppo bassa», la moglie gli dice che però non le piace la punta, «okay, però la fronte non troppo piena...».
Gabriele è muto. Fissa il vuoto. Non sa che dire: beh, una cosa normale, vorrei solo evitare di vedere il sangue. «Tranquillo, sarai in anestesia locale da lidocaina, a pancia in giù. Sappi che un po’ di sangue ci sarà».
Gabriele è ancora più pallido.
Il dottor Tosun illustra il programma: oggi, espianto dei bulbi e reimpianto; domani, sbendaggio e lavatesta; dopodomani, tutti a casa. «Vietati alcol, caffè, sigarette, sesso, sport, bagni per almeno dieci giorni. Niente sole. Obbligatori shampoo speciale, disinfettante, cicatrizzante, antibiotico, antidolorifico, antinfiammatorio, un mese di cardioaspirina».
Gabriele sbianca.
Come Churchill quando tracciava i confini dell’Iraq, con un pennarello nero il medico disegna sui crani rasati la nuova mappa del cuoio capelluto. «Possono esserci complicanze indesiderate: gonfiore, lividi, una reazione allergica, troppo sanguinamento, un’infezione, una necrosi del tessuto, una cicatrice più spessa, qualche capello può cedere. Ma non succederà».
Gabriele si siede.
«Poi, chiaro, c’è anche il rischio dello shock loss...». Prego? «Dopo un mese, i capelli ricominciano a cadere. Ma non c’è da preoccuparsi, perché ricrescono...».
Gabriele quasi sviene.
Ci vogliono dieci ore. Nanotecnologia da orologiai, rifinitura da miniaturisti, politura bonsai. Tre infermieri a testa. Hanno una pinzetta. Strappano i bulbi dove ce n’è, a uno a uno. Li riattaccano dove non ce n’è, a uno a uno. All’occorrenza, van bene anche barba e peli del torace. Il dottore apre i canali per il reimpianto. Salvo, 5.455 bulbi, e tanto di capello! (se da ogni bulbo ne ricrescono tre o quattro, fate voi il conto...). Prima del Fue, s’usava un altro sistema: il Fut. Si toglieva una strisciolina di pelle per cucirla sulla calvizie. Il metodo Berlusconi, per capirci. «Ma c’erano i punti, le cicatrici, e alla fine sembravano tutti gli omini della Lego. Adesso è molto più pulito. Niente segni. Nessuno s’accorgerà mai di nulla».
Non siamo qui a pettinare le bambole e qualche dubbietto spunta: ma è tutto sicuro? L’Ishrs, l’International Society of Hair Restoration Surgery, pubblica un allarme pieno d’esclamativi: «Attenzione al mercato nero del trapianto!». È una bella spazzolata al business turco: «In un momento di crescita del turismo medico destinato alla chirurgia estetica – avverte l’accademia mondiale dei tricologi —, l’esca di paesaggi pittoreschi e di trattamenti più economici può rivelarsi un viaggio senza ritorno verso operazioni insane e fallimentari, fatte illegalmente da semplici tecnici...».
Medico obbligatorioChe significa? «Che l’autotrapianto è un intervento medico e dev’essere eseguito da un medico», sforbicia Vincenzo Gambino, chirurgo di fama al San Raffaele: «L’anestesia, l’incisione, il prelievo li deve fare lui. La testa, la deve bucare lui. In Italia è obbligatorio». E invece? «Invece in Turchia fanno questi numeri enormi a prezzi ribassati, ma è una catena di montaggio. Cento operazioni al giorno! Quando noi ne facciamo una. Le figure mediche spesso non ci sono, non possono esserci. Così l’autotrapianto lo fanno gl’infermieri, gl’inservienti. Io so d’operazioni eseguite in ambienti non asettici, coi parenti di fianco che assistono senza cuffia, senza mascherina, senza calzari. Mi arrivano anche pazienti in necrosi, con infezioni». La replica del dottor Tosun è un lungo «mmmh...», tutta invidia: «La vera differenza con l’Italia sta nel fatto che noi trapiantiamo cinquemila bulbi e loro soltanto duemila». In Turchia, è vero, la presenza d’un medico non è obbligatoria. E lui non è iscritto all’Ishrs. «Ma nelle strutture serie, il chirurgo c’è. Eccome! Noi abbiamo tre dottori che seguono non più di dieci pazienti alla volta. L’apertura dei bulbi la fanno loro. E ci sono il cardiologo, l’anestesista, l’ospedale per i casi più seri». Niente black market? «Quello esiste, certo. E va fermato: gli ambulatori che fanno il trapianto a 700 euro non sono accettabili. Ma adesso il governo turco ha interesse a controllare, è molto più attento».
Piccola pausa, arriva un kebab col riso. Salvo lo mangia di gusto e ne chiede ancora. Gabriele non tocca cibo e si fa provare la pressione. S’arriva a sera. Si rientra in albergo, duecento metri dalla clinica. Un occhio di Allah appeso in reception ci guarda compassionevole. La nuova capigliatura è più inamovibile d’Erdogan, ma occhio alla polvere, agli spurghi, ai capogiri: tassativo dormire con due salviette sul cuscino, passeggiare con l’ombrellino parasole, non sentirsi addosso la forza di Sansone. Gabriele ha ripreso umore e colore. Salvo è eccitato: «Che esperienza! Me la porterò per sempre nel cuore e sulla testa. Una crescita capillare e personale». Settantadue ore a Istanbul, il riccio non è più un capriccio. Riporto addio, riecco l’aeroporto. Decine di teste bendate vagano beate nel beauty-free, il mercato esentasse della bellezza riconquistata: si riconoscono, si comparano, si complimentano. Al controllo passaporti, la faccia sul documento non è la stessa dell’andata, ma il poliziotto lo sa già e fa passare. Attenzione ad aprire le cappelliere: evitate la caduta di capelli.