Corriere della Sera, 25 agosto 2024
Intervista a Giuseppe Frison, sommozzatore
Provi a portarci con lei in quel relitto a 50 metri di profondità.
Il caporeparto esperto Giuseppe Frison, sommozzatore e coordinatore nazionale della Task Force speleosubacquea dei vigili del fuoco, si prende un momento di pausa e con il pensiero torna giù, all’ingresso del Bayesian.
«Ho la torcia in testa, il filo d’Arianna legato a un fianco e ovviamente ho aria. Entro. Mi ritrovo davanti a materiale di ogni genere che fluttua, magari è un vestito, magari è un materasso matrimoniale, devo spostarlo, girarlo per farmi strada, e non è un’operazione né facile né veloce. Devo stare attento che non si chiuda la porta alle mie spalle per non rimanere intrappolato. Tutto questo al buio, in ambienti molto angusti. Ho la torcia, certo. Ma in quelle condizioni è come guidare in macchina con la nebbia: se accendi i fari ci vedi peggio, ti crea confusione. Vado a testoni, il tatto mi aiuta a definire gli oggetti ma più mi muovo più mescolo l’acqua che si sporca. A volte la visibilità è un metro, altre volte zero. Non devo perdere la strada, ma per questo ho il mio filo bianco».
Il famoso filo di Arianna?
«Esatto. Si può chiamarlo così oppure sagola. È una bobina fatta su un mulinello. Ci accompagna nelle grotte o nel Bayesian che è un ambiente assimilabile alla grotta perché, come in grotta, non puoi risalire direttamente verso la superficie. Chi entra fissa il filo a qualcosa in modo che non intralci il passaggio e libera un pezzetto di strada. Chi viene dopo segue il filo e a sua volta avanza di un altro pezzetto. Così fino al risultato».
Ogni immersione laggiù è durata non più di 10-12 minuti. Perché?
«Per evitare l’effetto dell’azoto riconosciuto dai manuali. Gli americani lo chiamano “effetto martini” perché, se entra in azione ti rende non più lucidissimo. Ti puoi disorientare e in un relitto il disorientamento è un pericolo».
Ci sono state situazioni di rischio o di tensione particolari?
«Siamo molto preparati, abbiamo la lucidità e la professionalità che ci serve per gestire tutto al meglio. I rischi più gravi sono legati a eventi non programmabili, e per fortuna non ne sono capitati. In una «grotta» come il veliero qualcosa poteva collassare e bloccare qualcuno di noi. Ci sono porte particolarmente strette: devi armarle e metterle in sicurezza prima di andare oltre. Lei deve immaginare una casa ribaltata e piena d’acqua. Non hai più punti di riferimento, la porta non è più una porta, la scala non è più una scala, nel corridoio devi strisciare mentre tutto si muove e fluttua nell’acqua, si aprono le porte degli armadi...».
Lei ha seguito altri interventi simili a questo?
«Io sono sceso, con i colleghi di allora, a recuperare i corpi dalla Concordia: eravamo 7-8 in tutt’Italia a fare una cosa del genere. Ho ancora nelle orecchie il ricordo spiacevole degli scricchiolii che sentivamo mentre cercavamo i corpi fra la nave e la roccia. Sono stato sul fondo della centrale elettrica scoppiata a Suviana, c’ero per un altro relitto a Venezia... Credo di averli fatti tutti, negli ultimi 20 anni».
Da quando è sommozzatore?
«Ho 56 anni, sono vigile del fuoco da 30 e sommozzatore da più di 20. Abbiamo cominciato a Vicenza, dove vivo, con i salvataggi in grotta, ma solo dopo la Concordia abbiamo formato squadre in Veneto, Lazio, Campania e Sardegna. Siamo in tutto poco meno di 30».
Dev’essere durissimo anche l’addestramento.
«Beh, non puoi certo fare lo speleosub se soffri di claustrofobia. Facciamo addestramenti in ambienti ostruiti, nelle grotte. Facciamo un esercizio da bendati, in piscina: si simula un incidente in cui si rimane impigliati sul fondo e ci si deve liberare imparando a memoria le manovre giuste. Devi poterti liberare anche alla cieca, perché noi – fra grotte e fondali – siamo sempre in notturna».
Ha parlato con i parenti dei dispersi del Bayesian?
«Ho avuto qualche contatto. La loro disperazione per me è stata una spinta a fare bene e fare in fretta per restituirgli i loro cari».